"Consiglierebbe la carriera di scrittore?" mi chiese uno degli studenti.
"Stai cercando di dire amenità?" gli chiesi.
"No, no parlo seriamente. Consiglierebbe la carriera di scrittore?"
"È lo scrivere che sceglie te e non tu lo scrivere."

Charles Bukowski

mercoledì 21 dicembre 2011

Digestione notturna


Difendila la noia. Ti salverà sempre davanti ai tribunali in maschera. D’estate fra agli ormoni danzanti, d’inverno in mezzo alle apocalissi, tu ricorda di difenderla la noia. In mezzo ai soldati, fra le lance dei giustizieri, fra gli agguati dei ladri, nel bel mezzo di un’elezione comunale, difendi la tua noia, è sacra. Quando ti chiederanno dove hai dimenticato l’anima, a chi ti chiederà conto del tuo pane quotidiano, delle preghiere al mattino, del tuo umore diffidente, difendila la noia, è àncora nelle burrasche. Presto suoneranno il campanello e ti chiederanno d’esser loro, o dei loro, poco cambia, hanno l’anima leggera o defunta sotto i piedi delle paure, difendila la noia, o quell’inquietudine di sconfitta, salvala dal mercato delle indulgenze, dai vuoti di memoria, dai libri già scritti e cancellati, salva tutti i tuoi ricordi dalla mattanza futurista, si abita il passato nelle cineteche, il presente nell’eterno morire, il futuro nello scippo. Difendila sempre la noia, donale una carezza, è tua.

Crederesti d’aver visto piangere un gesto innocente, il limite del proprio scrivere, sta nel non saperlo fare. Provare per un tempo incerto, quanto un non pensarci che può durare anni e un minuto, il dono profetico d’esser scritto, di lasciare alla tastiera il compito di pigiare i tuoi polpastrelli. Gli occhi guidano la danza, osservano sequenze di movimenti. C’è qualcuno oltre la corteccia a dettare il dettame dirompente. Siamo parlati e allora capiamo di essere solo trapassati, dalle parole dette, in dormiveglia, prima di arrossire. Calpestare l’erba del vicino, immobilizzare il conto con tutti i passi frenati dalla lingua. Lingua dettata, anch'essa, lingua biforcuta, già detto. Lingua che è reduce dalla paura. Sei ancora lì a pensare di poter scrivere il tuo nome fra le mani di chi non ha più. Ora appena con un gesto, distogli lo sguardo.

Ed anche se potessi scriverla, quell'inadeguatezza a scrivere, quel dover buttar fuori, ciò che solo dentro è custodito come uno scrigno ingiallito dal vento. Le battaglie coi miei mostri, solo il mio ombelico può ascoltarle, nel flusso dell’intestino, nella danza cardiaca. A te, ai tuoi occhi cui toccherà leggere queste parole, posso solo tirar fuori batuffoli.

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martedì 13 dicembre 2011

A Recinto


Né più mai toccherò le tue sozze sponde
ove il mio corpo fanculletto giacque,
Recinto mio che te specchi nell'occhi
del gretto mare da cui vergine nacque
il sospetto, e fea quell'isole solitarie
col suo primo meschino, onde non tacque
le tue fosche nubi e le tue frodi
il pigro verso che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esigliò
per cui bello di fame e di sventura
baciò la sua petrosa Itala triste.
Tu non altro che il pianto avrai del figlio,
o matrigna mia terra; a noi prescrisse
il feto illacrimato e spoltura.

Libero Adattamento
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sabato 10 dicembre 2011

Ti scriverò


Ti scriverò. Lo giuro.
Ti scriverò.
Mi iscriverò. Lo giuro.
Mi iscriverò.
Sarò schivo al punto giusto.
Scherzo.
Schietto con le piante.
Gli alberi del giardino leggeranno il giornale.
Ultime notizie dal mondo. A modo.
Tra mezz'ora sarò fuori di qui.
Tra mezz'ora sarò ancora qui.
Tra mezz'ora non sarò più io.
Tra mezz'ora sarò pulito.
Tra mezz'ora vorrei essere mezzano.
Solo per poterlo scrivere.
Non esiste il destino.
Ma i suoi scherzi e i suoi regali.
Io avrò il mio presto.
Fra mezz'ora.
O poco più d'un mese.
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martedì 29 novembre 2011

Degli auguri


Si inizia con degli auguri. Che dopo un po' vanno fatti, non subito, diciamo dal secondo anno in poi, giusto perchè uno inizi a intuire di quale anniversario si parli e più che altro, cosa c'è da augurare. Lunga vita dicevano un tempo. Ora no, pare sia un po' riduttivo come augurio, ora che la posta per una lunga vita si è abbassata, dicono. Allora si prova a dire felice vita: auguri di felice vita. Un po' come lavarsene le mani; felice vita, poi veditela tu come. Io non saprei da padre cosa augurare ad un figlio. Magari la poesia in vita. Voglio dire il poter vivere quella sensazione poetica in vita, nella realtà, non sempre, che può diventare anche un po' fastidioso, ma diciamo spesso accorgersi di essere in costume nella sala da ballo, e scivolare sul pavimento quasi meravigliandosi di come si fili davvero così liscio. Quindi eccomi qui a fare la mia parte. Sabato scorso, che per un blog è come dire un mercoledì del 1783, diciamo allora il 26 novembre scorso, qualunque cosa ciò voglia dire, il finimmondo, questa creatura virtuale, virale e virile, ha compiuto due anni (http://ilfinimmondo.blogspot.com/2009/11/anno-2354-le-forze-di-occupazione-degli.html).
Lasciatemelo dire con amor di padre che l'ha visto e trascurato ogni giorno, che è cresciuto. Certo un padre non si accorge subito dei cambiamenti, deve rivedere le foto d'un tempo. Ricordare. Dare corda. Sciogliersi. Ecco, tutto qui, e allora li faccio gli auguri, di non so più cosa. Se può un blog avere un tempo oltre le indicizzazioni, se può avere un età oltre le visite giornaliere, se può invecchiare oltre i commenti scarsi e scarni, se può un blog riconoscersi allo specchio di un suo pari: e su quali piattaforme? Può provare un Blogspot dei sentimenti per un suo simile? E verso un Wordpress? C'è vita oltre Facebook? E ancora, è già zoofilia l'amore fra un Blogspot e un Tumblr? Cosa ne pensa la chiesa? Può infine essere necrofilia un rapporto con Splinder?
Come spesso accade per ogni augurio, per ogni lunga e buona vita, c'è qualcun'altro che saluta, a volte per sempre, dice lui. Così accade che se pure uno è morto da tempo, da tempo non respira e non dà cenni di vita, in realtà poi muore ancora, e solo allora scopri che lui fino a quel momento non era morto, o meglio lo era perché qualcuno lo riteneva morto, e per lui tutti quanti. Anche se potenzialmente poteva rivivere e vivere. Sono di quelle cose che servono a farti capire che non solo si può morire due volte, ma che la seconda volta ti dice che la prima era finta. È questo che succede. Splinder a quanto pare chiude, e noi che navighiamo fortunati su questo pianeta blogger, ancora solido e felice, sicuro delle sue forti spalle googoliane, possiamo anche girarci dall'altra parte e fregarcene, potremmo. Le cose però si complicano quando si scopre che avevamo qualche caro lì su quel pianeta, e chissà come sta ora? Proviamo a chiamarlo per rassicurarci. Quello poi risponde sì, sì. tutto ok, ci stiamo trasferendo in Colorado, stiamo salvando tutto nelle valige. Anche se poi loro sanno che quelle mura hanno la loro vita dentro. E non serve dire altro.
A volte però accade che uno è già morto sull'altro pianeta, e poi scopri che muore di nuovo, con la casa e tutto. Prima potevi anche andarci da quel morto, ma morto per finta. Potevi fare qualche domanda, lui ti rispondeva solo con ricordi, nient'altro, ma parlava, anche se tutti lo davano per morto. Poi però Splinder chiude, buttano giù il morto, la casa, i ricordi e l'anima. Quell'anima che si è reincarnata, in porti sicuri.
Come ci si sente a sapere che la propria vita precedente muore? Per davvero.
Cosa succede quando ciò da cui ti sei reincarnato muore? Che fine fa a quell'anima, che poi è la tua stessa?Cosa succede quando buttano giù tutto ai tuoi fantasmi?

"Questo Blog (o ditelo pure) è la reincarnazione del Blog (o blogga) antistorico Atto/azione morto d'asfissia in un'ora d'aria" 


Forse gli andrà a far visita qualcuno, prima che portino via la salma.
Ci torna il finimmondo, a cercarsi e ritrovare un filo disperso, un suono che ancora sembra parlargli da un mondo e un morto così lontano. Dovrai ascoltarla quella voce. La strada non ha mai lo stesso destino d'andata. Figliolo.
Auguri e condoglianze.

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domenica 13 novembre 2011

Lettera d'addio (ai nemici ed alla patria)


Non l'aspettavi questa lettera, certo non ora. Nenach'io a dire il vero. Eppure mi ritrovo debitore. Sono io, colui che ti insegue dall'inizio ed ancor prima. Quando ti dichiarai guerra e ti elessi a mio nemico. Sai già chi sono, conosci i miei nomi e i miei spostamenti. Quasi vent'anni di inseguimenti ed eccomi ora, incredibilmente superstite, davanti al tuo capezzale, ma non sono più vivo di te, non provo gioia né riscatto, perchè conservo ancora qualcosa di raro, qualcosa forse anche a te sconosciuto, anzi sopratutto a te, che hai plasmato e torturato a tal punto questa terra da aver corrotto anche i tuoi nemici, si chiama onore. Avrei dovuto conficcarlo io quel pugnale, io che ti inseguo dalla notte dei tuoi tempi. Avrei dovuto strigerlo io quel cappio al collo, io che ho sognato il tuo cadavere ogni notte per vent'anni. Avrei dovuto metterti io alla barra, giudicarti, condannarti e giustiziarti, per ogni ferita inflitta a me ed al mio popolo cieco. Mi hanno chiamato Sciopero e nei momenti migliori fatto addirittura Generale, per buttarti giu dal tuo trono incensato. Li ricordo i primi tempi, li ricordi anche tu, non era come oggi, solo e tradito nelle tue stesse fila. Allora che godevi del potere dei condottieri fra le tue truppe, salvatore ti chiamavano. Anche tu fosti àncora per i naufraghi d'altre guerre, traditi anche loro e mai giustiziati dai loro nemici. Ero a Napoli quando per la prima volta ti ferirono alle spalle, ma anche quella volta non ero io, non fu la mia lama a colpirti. Ed anche se ho sempre voluto giustizia non era quella imbiancata delle toghe che cercavo, ma la mia, sempre la stessa, da sempre. Ero ancora in clandestinità, allerta con le mie legioni, sapendoti vorace. Ci ritrovammo ed avevo un altro nome, un altro il campo di battaglia. Mi hanno sopranomminato Carlo dopo. Ero un altro mondo. Non avesti il tempo di stringere lo scettro. A viso aperto ci rincontrammo a Genova. Non avesti pietà di me, alcuna. Non potevi e non la cercavo. Perì ancora. Mentre assoggettavi ogni centimetro di mente, ti ho odiato ancora di più. Ma non ero morto. Ero ferito, pericoloso, come ogni animale ferito. La ricordi ancora, quella lama nel tuo costato. “Dimmi il tuo nome!” mi chiedesti, e non potevo che risponderti “18”. Dopo ci siamo ritrovati mille volte, ma lontani. Cesare premuroso, accollato nel tuo mantello preferivi i mercenari da mandare al macello. Mi hai chiamato Pace, quando bombardavi per il mondo, black bloc, quando ti servivo crudele, San Precario se beato, No tav in Valsusa, No ponte giù in Sicilia, e poi sempre più sfuggevole in ogni angolo mi sono celato, dentro ogni foresta, le mie imboscate si facevano sfuggenti e repentinee, a Vicenza, tra i rigassificatori e inceneritori, cementificazioni, deforestazioni, condoni, e poi a Termini Imerese, Pomigliano e Mirafiori, io c'ero, io ero lì. Eccoci qui ora, alla fine di questa corsa, che non è solo tua ma d'entrambi. Siamo sconfitti, così tanto ci siamo rincorsi. Non era questa la fine che desideravamo, nessuno dei due. Ma questo popolo è il tuo, Cesare, tue sono le menti, tue le ossessioni e perversioni, tuoi i risentimenti, le passioni e compulsioni, e se questa è la tua fine tu l'hai cercata. Per conto mio ho perso ancora, e morendo così mi pugnali di nuovo, con la più definitiva e mortale delle ferite. Ma Cesare, so bene che neanche tu potresti tanto, e tu stesso insieme al tuo popolo eletto, anche quello che ti manda al rogo, non sei che il risultato dei millenni di questa terra, di questo popolo infame e miserabile, eternamente pecora e ingrato, servile e canaglia, chino e traditore. Molto prima d'essere nazione era ancora risentimento, tanto da render possibile l'inaudito per il proprio particulare, da invocare il re straniero, per far fuori il proprio principe, perchè non siam popolo, perchè siamo divisi. Adesso tocca a te Cesare, donare il sangue alle tue serpi, attillate in doppio petto in attesa di Carlo V. Scende il re spagnolo, muore il vecchio tiranno, e di me chi ti ho inseguto sino all'ultima delle tue ore, non resta che morire insieme a te. Mentre le strade incoronano il nuovo cavaliere.

Tuo maledetto
                                                                                                                                                  Q

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domenica 6 novembre 2011

Non ci piove


Di piovere deve piovere, non ci piove. Il problema semmai è capire su quali cappotti piove o deve piovere. Se ogni goccia debba insinuarsi tentacolare nel feltro o scivolare come uno stagno sulla pelle, condensarsi in chiazze omogenee sui k-way. Potrebbe inzupparsi nella stoffa. Inumidirsi e gocciolare nella lana. Gocciola. Si allunga. Rilascia. Si ritira. Si scioglie a terra. È un parto delicato e matematico la goccia, il gocciolare. Gocciola. Si allunga. Rilascia. Si ritira. Si scioglie a terra. Evaporano gli stagni, evaporano i fiumi e i fiumi in piena, evaporano i mari, evaporano i ghiacciai, evaporano i pianti, evaporano i cappotti ed i k-way. Evaporano i desideri, evaporano i brutti pensieri, le angosce, i malintesi. Evaporano le paure scampate, le salvezze apparenti, quelle sincere. Evaporano gli anni, evapora il silenzio, il giorno, il ricordo. Si ascende, con le correnti, le ricorrenze, i ridondanti. Si torna, si soffia, si viaggia, si sorvola, si cavalca, ci si allontana, si elenca, si ripete, si gioca con le parole, con i venti e i vanti ed ogni tanto i vati.
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sabato 5 novembre 2011

In sogna


Dolente. Con un muscolo pigro. Un altro teso dietro la nuca. Rinuncia al vino dopo i pasti. Meglio astemi nel mangiare. Era lenta quando sognava. Appariva in immagini che erano solo nella sua bocca. Appena impastata e secca. Appena sveglia si ritrovava sola. Senza più tutte quelle idee di quando era R.E.M. Per questo ci affondava volentieri. Tanto nei libri, quanto nelle lenzuola. Era lo stesso immenso campo di battaglia. 

Appena ad occhi chiusi, si ritrovava sempre in una sala d'aspetto. Era molto comoda, silenziosa, asettica, bianca con un leggero profumo di vaniglia e bisbigli dietro le porte. Seduti in comode poltrone bianche insieme a lei apparivano sempre diversi personaggi. Ma tre erano quelli immancabili che si ripresentavano ogni notte: il primo si chiamava Martino Martini Martinelli un latinologo di successo, che curava una trasmissione televisiva su telerobbamia da ormai 15 anni indagando sulla scomparsa del latino negli uffici pubblici. Indossava un completo beige su camicia bordeaux, scarpe verde scuro luccicanti ed un immancabile papillon marrone a pallini bianchi. Pochi capelli sulla testa coperta da una bombetta rossa e baffi all'insù; il secondo era un pregamorto, si chiamava Louis Franco Boldis e come tutti i pregamorti era nero, eccetto per il rossetto rosso e il fondotinta bianco; l'ultimo e immancabile era un ragazzino di 11 anni, appena prematuro di nome Michelino Giancesare Aggioletti, ma tutti lo chiamavano psss. Erano loro tre ogni notte a decretare i suoi sogni, che partivano tutti sistematicamente da quella sala d'aspetto. Di solito era Martinelli a rompere il ghiaccio, faceva finta di leggere riviste di gossip, per poi ogni notte sospirare, tirarsi su i baffi e iniziare a dar sfoggio della sua erudizione
- « Sans papiers je nè compris pas » dicevano i latini gallici al volere della luna, quando i tabernacoli strapieni di vini, riempivano tannici i volti imbiancati dei liberti. Era l'anno 34 dopo Cristo ed il triumviro del Peloponneso riunitosi per disquisire delle recenti rivolte persiane ebbe a dire «Limite d'accesso per i mezzi pesanti» nessuno capì le sue parole e pochi secoli dopo i barbari ebbero ragione su tutto!
Così facendo il Martinelli strizzava l'occhio nella sua direzione, con un leggero sorrisino.

Povera me diceva sorpresa nel sonno, ho sbagliato di nuovo qualcosa, fra qualche piega devo aver perso tempo, senza accorgermi dell'asfalto sotto i piedi, che non è più liscio come una volta, ma usurato dalle continue sollecitazioni, dal gelo e dal calore, dalle piogge, dall'erosione, dall'evasione, dall'incudine e il martello, dai vetri rotti in campagna, dalla voce del direttore che mi è parsa un po' fredda o magari era un'impressione, ma adesso è solo quel suono teso che rimbomba dentro, è solo quello a far rumore, anche quando non ci pensi, c'è solo quello, poi passa, come la marea lascia pian piano l'umido sulla sabbia, poi la schiuma, poi niente, solo sotto in profondità qualche traccia, impercettibile e pungente.

Toccava ogni notte a psss prendere in mano la situazione dei sogni, lui a 11 anni deve ancora scoprire la masturbazione, anche se sa già che c'è qualcosa che non va, qualcosa di strano, ma non capisce cosa diamine è. La scoprirà domani, ma ogni notte, il domani di ogni notte. Sarà per sempre il giorno prima della prima sega. Ma lui non lo sa. I suoi occhi paiono quasi commossi dalle parole del Martinelli e prova ad alzarsi in piedi dal suo divanetto, ma non ci riesce, così rimane disteso, guarda il soffitto e inizia ad emettere un sibilo sottile, dapprima silenzioso, quasi impercettibile e man mano sempre più forte
- ........hhhhhhhhmmmmMmmMmmmMmmmmMmmmMMMMMMMMMMM!!!!!!! Deve esserci qualcosa oltre questo scroto deve! Dev'esservi una fine in questo corpo bestiale che non mi dà tregua, e mi strappa via ogni giorno le mie corde vocali, i miei peli prepuzi, i brufoli sul viso non sono la mia età, questi baffetti piumati, odiosi e meschini, sicuri della tolleranza infantile, della salvezza garantita per chissà quanto prematuro ancora, non fanno di me un giovane turco. Io sono mio! Ma mio di chi?!! E ci voleva anche il catechismo, come se non bastasse, avrebbero dovuto darmi una puttana, una tetta, un pelo, una coscia, persino un autoreggente mi sarebbe bastato, ma per far cosa? Per strozzarmici nudo, per scrotarmi ed evirarmi e stringermi e penetrarmi e strusciarmi al termosifone di casa sua, alle sue defonseca, ai suoi calli, ohh benedetti calli schifosi, quanta poesia erotica dentro di voi! Ma perché, perché mi avete spremuto dentro il peccato se sapevate tutto questo? Perché?!! È facile essere fedeli nell'incoscienza, ma perché quest'abominio allora, questa mela intestina, masticata e mai sputata, perché mi volete peccatore? A tutti i costi, per capire le vostre omelie? I vostri vangeli? Al diavolo voglio sburrare su satana! E poi vuoto magari tornare a benedirmi con voi!!!
Ogni notte psss finiva il suo monologo prematuro e sconsolato, composto, come non fosse mai successo nulla, si dirigeva verso una porta oltre la sala, su cui c'era scritto «Sala Prove, Via Martiri del Prepuzio, 69 angolo con Via delle Pene» guardava tutti commosso e con quell'aria ingenua e scanzonata entrava dentro.

La fanciullezza rapita. Dovrebbero farli più spesso i riti di iniziazione. Dovrebbero anzitutto fare un grande funerale, con una bara bianca davanti ed il fanciullo iniziato dentro, senza coperchio. Deve capire in quel momento che quel passaggio è come ogni passaggio, anzitutto una morte. Un bambino muore e un adulto sta per nascere. Andrebbe messo sotto terra per qualche secondo e poi estratto, il tempo per cambiarsi d'abito e festeggiare il nuovo venuto, dalla terra.

Louis Franco Boldis, che sino ad allora guardava impassibile, con la sua calma eterna il dispiegarsi del mondo, delle sue contorsioni e contraddizioni, prende la parola da un colpo di tosse, che schiarisce una voce cadaverica e pesante.
- Vedete miei cari, io capisco bene come le vostre preoccupazioni ora, sono tutte incentrate verso quale lato mostrare al mondo, se frontale, di lato, superiore, inferiore, destro o sinistro, lasciate che vi dica la mia, che ho una certa esperienza sui copri e conosco alla perfezione i loro lati. Tutto dipende innanzitutto dall'età, ad esempio i bambini non stanno bene mai da nessuno lato, così almeno può sembrare ad un occhio inesperto, magari costretto a vederli sempre mobili e irrequieti, ma io vi posso assicurare che il lato migliore dei bambini e da dietro le orecchie, cioè proprio dal capo girato per tre quarti, appena dietro l'orecchio, in modo da poter vedere bene i capelli, le orecchie e intravedere appena gli occhi, che i bambini è meglio non guardarli mai per troppo tempo negli occhi, rischierebbero di farti sentire in colpa, di farti provare pietà di loro, per quella fine precoce che farà l'innocenza, perché vi rinfaccerà, con quegli occhi, il vostro adulterio vitale, da adulto. Non si può resistere allo sguardo di un bambino. Nei ragazzi il lato migliore è senz'altro quello frontale, sono una vetrina, una merce esibita. L'eternità di Apollo che ti obbliga alla primavera, sempre. Per gli adulti e i cinquantenni il lato migliore sono le mani, ti dicono tante cose. Chi sei, cosa sei, quanto sei, cos'hai fatto e spesso cosa ti resta. Le mani sono il segno di chi ha lo scettro in mano e a quell'età si comanda, la strada si è già scelta, si può solo imporsi. Il lato invece che prediligo negli anziani è quello laterale, assumono una dignità inimmaginabile gli anziani di profilo, sono sagome all'orizzonte, ulivi piegati e maestosi, fra le rughe piene, e i nasi induriti. È più o meno questa la vita, una questione di profili, di punti di vista.
A quel punto Louis Franco Boldis si alzava cauto, si dirigeva lento agli angoli della sala e spegneva pian piano tutte le luci. Poi quando il buio era totale si ritrovava nel suo letto. Ancora nuda a pensare quale fosse il profilo migliore per dormire. Ma non era sveglia. Ancora.

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mercoledì 2 novembre 2011

Sonnambulismo messianico


Rientrò prima di dormire. O poco dopo, lì sul portone di casa, dove aveva da tempo deciso di sistemare gli ombrelli, il tappeto, il campanello. Che certe notti, certe notti verrebbe d'uscir fuori in ciabatte, anzi meglio a piedi nudi o coi calzini, che è sempre meglio ripararsi un po'. Certe notti dicevo, certe notti verrebbe d'uscir fuori quasi scalzi con l'ombrello, anche senza pioggia, anzi sopratutto senza pioggia, che se piove invece è meglio lasciarlo dentro l'ombrello e abbracciarsi la pioggia. Così dicevo certe notti, certe notti senza pioggia, verrebbe d'uscir fuori quasi scalzi con l'ombrello e scendere le scale, anzi meglio, rotolarci giù per le scale, con l'ombrello aperto. Cosicché, come dicevo, certe notti, certe notti senza pioggia, verrebbe d'uscir fuori quasi scalzi con l'ombrello aperto e rotolare giù per le scale e poi magari aprire il portone, anzi no meglio, rimanerci prima delle ore dietro a quel portone e guardarci attraverso se è possibile, che se ci guardi attraverso ai portoni o in generale ai vetri e fuori c'è il mondo, allora è, allora è, allora è come vedere un film, come riparato, come se ci puoi pensare un attimo, puoi dire magari torno su, oppure resti davanti alla porta a guardarci attraverso, ti pisci addosso se vuoi, magari sì, potendo uno si piscerebbe addosso, lì davanti al portone mentre ci guarda attraverso e pure se non ci guardi attraverso, pure se il portone è di legno o di ferro o di marmo o comunque senza vetri, uno ci rimane, dico ci rimarrebbe lì ad aspettare e pure a pisciarsi addosso. Dicevo quindi che certe notti,  certe notti senza pioggia, verrebbe d'uscir fuori quasi scalzi con l'ombrello aperto e rotolare giù per le scale e rimanere ore davanti al portone, a pisciarsi addosso potendo, per poi aprirlo quel portone e mettersi in mezzo alla strada con il freddo leggero a dare ossigeno e i pensieri a sputare nel silenzio. Allora dico, solo allora, potresti anche morire, abbracciare un uomo, uno qualsiasi, uno sconosciuto, o il vecchio della porta accanto, quello del primo piano che non ti è mai andato a genio, allora potresti anche correre fino all'altro lato del paese e fermarti quando il fiato non ti dà tregua, per poi guardarti la punta dei piedi, alzare lo sguardo al cielo e ridere a crepapelle, provare poi a volarci con quell'ombrello e dire a tutti che il mondo sta per finire e i giochi sono fatti, e c'è da esser matti a restar lì impassibili e sani mentre il mondo sta per finire, anzi no, dire che il mondo è già finito e siamo qui da secoli ad aspettare un tram che ci porti via da questo casino, prima dei netturbini. Hanno detto alla televisione che  i ferrotranvieri sono in sciopero, altri dicono che sono morti anche loro e certe sere, che uno starebbe lì lì per uscire fuori, e far chissà cosa, finisce che gli sorge il dubbio che tutto è già finito, mentre si rimane ad aspettare un epilogo che non verrà e allora tutti quei pensieri e quelle strane voglie le lascia cadere giù dalle scale, che va a finire che ti prendono per pazzo, per la solita fine del mondo. Solo a quel punto, quando t'accorgi del vicino che ti osserva lì titubante in piena notte, con la porta aperta, quasi scalzo e la mano vicino agli ombrelli, trovi la prima scusa che ti capita, provi con la storia del sonnambulismo, che forse a quella ci credono. Per spiegare quel paradosso della fine del mondo, tanto vale affidarsi al sonnambulismo.
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lunedì 31 ottobre 2011

In paziente (pathein)


Avendone cura. Del tuo bicchiere mezzo vuoto servito.
Del calice su cui ti piegherai per piangere.
Per pregare. Per pagare e semmai pogare.
Io non avrò da ridire del pessimismo dei punti di vista.
Delle viste guidate. Dei punti premi. Dei conti in ordine.
Ho conosciuto qualcuno che ha meritato le mie virgole, le mie esclamazioni! i miei interrogativi?
"Virgolettato i miei pensieri" (e le infinite parentesi a perdersi nel nulla).
Non avevo parole, forse è questa la soluzione. Creando vuoti nella lingua.
Disimparando a parlare. Forse meglio. Impossibilitati a tradurre a parole.
Un vecchio computer che non supporta e non sopporta. Allora bippa.
Emette rumori. Pance sgonfie. Rutti affamati.
Meglio berlo quel bicchiere. Tossire di traverso.
Ingozzarsi d'aria e bollicine. Meglio annullare ogni indecisione.
Fra mezzo pieno e mezzo vuoto, mezzo bere.
Appena per ricordarsi il suo nome, il tuo, il  mio.
Il prezzo da pagare per una cerimonia impaziente.
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giovedì 13 ottobre 2011

Pieghe



hai aderito
hai adorato
hai odorato
hai adornato
hai deodorato
hai diradato
hai divorato
hai divorziato
hai divagato
hai divertito
hai invertito
hai riverito
hai rivestito
hai riversato
hai traversato
hai tramortito
hai tramutato
hai tramontato
hai travisato
hai tradito
hai tradotto
hai travolto
hai sconvolto
hai sconfitto
hai soffritto
hai soffiato
hai annaffiato
hai arraffato
hai ammassato
hai ammazzato
hai ammaliato
hai smagliato
hai scagliato
hai stagliato
hai studiato
hai sgonfiato
hai spogliato
hai sfogliato
hai svogliato
hai ammogliato
hai ammalato
hai acclarato
hai accaldato
hai accantonato
hai accapponato
hai accavallato
hai accompagnato
hai accoltellato
hai accontentato
hai accordato
hai ricordato
e poi dimenticato
sei stato assolto dall'avere
disciolto dal verbo


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domenica 9 ottobre 2011

Autunno


È  normale piangere, appena l'autunno bussa alla tua finestra. È un bussare timido ma costante. Seguito da boati e colpi di tosse. Non ti resta che piangere. Se solo non avessi da fare, dico. Se solo fossi solo, veramente, lì ad ascoltare i discorsi dell'autunno, che è una voce confidenziale, di quelle voci radiofoniche di notte lungo la strada, o dei racconti di un anziano parente. Devi piangere quando l'autunno bussa alle finestre. Non per tristezza né per gioia, si piange per poterci parlare con l'autunno, è la sua lingua e se taci, fai silenzio e resti solo, ma veramente, allora capisci che non ti resta che piangere, parlare con l'autunno vuol dire piangere, in quasi tutte le lingue, piangere è piovere, llorar è llover, pleurer è pleuvoir, rain è cry (e forse crain). Ogni uomo solo, ma veramente, dovrebbe aprirla la finestra e lasciare che l'autunno strabordi oltre le rive, dentro la sua stanza, ad impregnare le sue branchie dei suoi pianti, di quel dondolìo del mare, delle lontane avventure di quel vecchio marinaio che è l'autunno. Ora che non sei più solo, ma veramente, affogato dentro quell'autunno resterebbe da lanciarsi fuori, nell'autunno. Nuotare in quella burrasca che finalmente ha un volto, e dentro cui puoi finalmente affogare. È la stessa che ti porti dietro e ti porti dentro da sempre. Ma non puoi mica affogare in una burrasca che è dentro di te e allora per questo arriva l'autunno, per coccolarti fra le sue onde, per poter finalemente affogare dentro la tua stessa burrasca e piangere, piangere, piovere, piovere, piangere, piovere, piangere, piovere, piangere... Pescatore solitario, vecchio marinaio burbero che ci accogli fra le tue reti, che peschi solitudini, che getti via le lische delle ossessioni, le manìe di ogni patria, le nevrosi che fuggono da se stesse. Si rimane così.
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venerdì 7 ottobre 2011

Lapidiario


Dilapidare ricchezze. Lapidare ricchezze. Lapidi di ricchezze. Tutto viene sepolto da una pietra. Una qualunque. O quella definitiva. S’intende. E su ogni pietra edificherai una chiesa. La stessa che dilapiderai. La stessa che lapiderai. La stessa lapide di Pietro. Che è pietra e lapide. Si scaglia sul figlio. Dal padre. Levigata, scheggiata e colpevole. Ho sfogliato la tua faccia tra le mille pieghe del tempo. Dei tuoi ricordi. Che non sono tuoi più delle tue tasche e dei tuoi pensieri. Sei salito al tempio per ricevere ricovero. I templi non sorgono mai a piano terra, e nemmeno i tempi. I templi sono sempre illuminati al neon, in tutti i tempi. Cercavi le lettere alle tue parole. Quella pietra che ti scalfisce, leviga e indurisce. Ti sbriciola col tempo e col tempio e ti rende sabbia. Così libera nell’Oceano. Il significato di tutti i templi e di tutti i tempi è sempre stato in quella scheggia. Nell’arrugginito consumarsi, riprodursi, senescersi, obsolescersi, obliterarsi. Clicca la macchina. Lascia un dito mozzo, una carta ruvida, un leggero timbro ed un occhio di mascara. Tutti in quel mare che chiamiamo oceano, stagno o placenta. Respiriamo la sconfitta della nascita. Buttati al mondo in quel modo orribile e disgustoso. Marchiati a sangue dal sangue. È una castrazione per tutti e per tutte. Ogni ombelico è lì a testimoniare dinanzi a dio e alla sua pietra l’orribile mutilazione. Non c’è scampo per nessuno, siamo cacati. Potevamo tuffarci alla vita. Una piscina olimpica come inizio delle danze, un elegante modo per presentarsi ai parenti più stretti. Ma si sa, ha poca eleganza dio, abituato ai suoi modi rudi e spiccioli da vecchio contadino. Con la sua canottiera bianca sporca di sugo, e quella barba ripiena di terra. Neanche per suo figlio ha avuto riguardi. L’ha abbandonato appena nato, mentre in croce chiedeva il perché di quella paternità rifiutata. Potevamo essere molto più eleganti in un uovo, senza troppi traumi per nessuno. Ci sarebbe da adottare uno psicologo per ogni nascita, per quel trauma immane che non a caso siamo tutti costretti a rimuovere. Indicibile. Invincibile. Incivile. Incendiario. Cosa cercherai mai su quel tempio dorato che non hai nel tuo ombelico? Cosa avrà mai da dirti l’ultimo guru, l’ultima merce, l’ultimo contante racimolato, l’ultima ricchezza lapidata, lapidaria e ultima? Costretto a cercare un padre dietro ad ogni fantasma. Dietro al tuo armadio, sotto al tuo tavolo, in cucina, nel bagno, giù in cantina, nel nascondiglio pornografico, o su, più su, in cima a quel monte, in cima al tempo e al suo tempio, in mezzo alle tue tempie, lontano dai tuoi ricordi, da quel primo orribile e inesauribile, ad oggi che hai acquistato il tuo nuovo fantasma, celato da dio, costretto da un’idea, da un’immagine, da un’indagine di mercato, da un’ingegnere nucleare, dall’ultima moda in fatto di noia, e sempre su quel tempio hai timbrato il tuo scontrino fiscale, e non si sfugge, è fiscale, per sempre, in gioco per sempre del tuo vuoto voto in vita. Scalfiscila ancora, levigala, incendiala, induriscila fra i denti, aguzza ogni pietra fra le tue mani, fino a quando ogni sempre sarà finito, fino alla tua chiesa, alla tua lapide, alla tua lapidaria ricchezza.
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sabato 24 settembre 2011

Militanz


«Fuori da tempo e storia,
Via dall'eternità,
Dai cicli, dai progetti,
Dai radiosi futuri,
Dal sol dell'avvenire,
Dalle gloriose armate,
Dalle stelle ai simboli,
Dalle albe umanitarie,
Il passato è afflosciato,
Il presente è un mercato»
CCCP - Militanz

Forse era per quell'aria soffocante che non aveva ossigeno. Le sigarette si piegavano accartocciate una sull'altra come su un campo di battaglia. Era il turno del discorso ragionato, quello col buon senso dell'analisi, un'analisi di fase che era figlia di una documentata indagine sugli umori. Il suo turno forse non per caso, come un concerto per fiati, seguiva quello di pancia, quello sfogatoio ribelle prima di lui. Il solito che si fa guidare dalle passioni e dalla rabbia, la rabbia cieca che quasi sempre fa sbagliare rotta, ci fa essere precipitosi, impulsivi nelle scelte, incapaci di guardare al quadro nel suo insieme, a ciò che avviene, ai percorsi, corsi e ricorsi storici. La passione non va mai bene. Certo, tutti l'abbiamo, ma scade spesso nel culto, nell'appartenenza, nell'appartenersi. E a me da fastidio lo so, tutto questo senso cameratesco e sudaticcio. Quest'eterna catacomba per poveri cristiani, continuamente affollati di pensieri, continuamente affogati dai pensieri, congetture, strategie, abnegazione, forza. Ho il vuoto nella testa mi muovo poco e male. Compagni non divaghiamo. È chiaro che l'intenzione era quella di farci fuori, di accusarci all'interno del movimento di cose per cui. Era chiaro sin dall'inizio l'ostracismo che a sinistra ricevevamo da chi continua a vedere nell'azione nostra una qualche intenzione politicista che ci è del tutto assente. Dati i rapporti di forza. Tenuto conto delle intenzioni moderate dell'attuale governo, in questa fase di retroguardia, conservatorismo reazionario mi pare ovvio come. Gli interessi economici di una parte di quel ceto dirigente, anzi no di tutto il suo gruppo. Attenzione non facciamo l'errore di fare di tutta l'erba. Non vedo un coinvolgimento da parte dei compagni. A queste riunioni manca l'adeguata. Eravamo morti. Morivamo. Moriamo. Vivere o morire. Morire per la causa, o morire per niente. O morire giornalmente per la causa. Una causa persa. Persa il giorno in cui abbiamo dimenticato il nome della causa e l'abbiamo chiamata semplicemente causa. Effetto, fine, motivazioni sensibili. Non capisco tutto quest'astio, cosa non ti convince? Credi che ci siano stati errori da parte della classe dirigente? O forse la base non ha compreso l'importanza della militanza totale? No, non è la base, non è il vertice, l'altezza o il diviso due. Non so cos'è. O lo so da sempre. Perché continui a bagnare le tue idee, così preziose nella vernice della storia? La storia è un teatro immenso. Uno di quei teatri greci con le maschere e tutto il resto, un baccanale a cui qualcuno a volte ci invita, raccomandandoci l'abito, non da sera e nemmeno scuro. A teatro l'abito è quello di scena. Solo quello di scena. Lo stesso spettacolo recitato per i botteghini delle corti private di fine settecento. Eri innocente da solo. Eri puro da solo. Eri sbagliato, come tutto e come sempre. Ma eri tu. Ancor più quando hai tritato tutte le tue certezze davanti ad ogni altro. Dinanzi ad ogni libro, dietro a qualsiasi teoria ci hai riposato con i tuoi eppure, con la tua candida forma ecumenica. Ora hai abbracciato qualcosa, pensando che era tua. Non passa giorno che lasci cadere quel qualcosa che ti rendeva innocente, ed un trucco di scena ti prepara per il tuo gran giorno, quello in cui i tuoi parenti giunti da lontano ti applaudiranno. Ma non eri tu, è scena. Lo spettacolo deve continuare. Ciò che dovremmo fare attraverso un'accurata campagna di informazione, è far comprendere l'importanza di una mobilitazione generale contro l'attuale politica economica. La controriforma del governo ci impone un'alleanza con quelle forze che alla nostra sinistra non si piegano al tatticismo sindacale, ma sono pronti a mettere in atto azioni di lotta irrevocabile, continua e di massa. Non provi mai a sputare ciò che difficilmente potrai masticare? Tu che hai iniziato tutto perché avevi difficoltà con le ragazze. Eri timido alle medie e cerchi rassicurazioni nella prosa autoconvincente della lotta? Piangi ti prego, ma di lacrime tue. Le riconosci subito, sono quelle che t'abbracciano e ti riportano in grembo, nel tuo stesso grembo. Conservala la rabbia. Ma non essere ribelle. Non chiuderti mai dentro ai palchi scenici. Respira. Perché obblighi i tuoi pensieri a credere? E non getti i remi a riva. È burrasca quella che vedi dal tuo primo respiro. A cosa serve ancorarsi nella burrasca? Sciogliti, affoga e disperati. Non costruirti rifugi. Mai! Non cercare una patria. Sii straniero.
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venerdì 16 settembre 2011

Inutile


Cari lettori, care lettrici, cari e care visitatori occasionali ed improvvisi.
Vi scrivo questo post per informarvi che con mio sommo piacere, sono comparso su Inutile On Line, con un mio racconto dal titolo:
Grazie mille Inutile!

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sabato 10 settembre 2011

Ghiaccio Secco



Ripassava il ghiaccio secco sulle posate d'argento. Senza una ragione apparente, così, per farle apparire più fredde.

- Dì la verità, non hai la minima idea di cosa scrivere, è un momentaccio lo so. Ma credi davvero di prendere in giro qualcuno inventandoti certe cazzate?
- Beh, sai uno ci prova, magari poi esce fuori qualcosa. Sai alle volte succede così, per caso, magari ti esce fuori un... Chiedi a coso lì...come si chiama?
- Chi?
- Quello famoso che scrive, adesso mi sfugge il nome...
- Stefano Benni?
- Sì!
- Ma vai a cagare! Stefano Benni ti sputa in faccia a te! Cosa pensi di fare il genio col ghiaccio secco?
- Cagare non cacare, fica non figa!
- Eh?
- No niente parlavo tra me e me.

Gessica apparve in quel momento nella cucina. Ormai disperata, lo vide in quell'esercizio stupido e insensato del ghiaccio, che quasi come un incantesimo, si ripeteva ormai puntuale da più di due anni, ogni giovedì pomeriggio. Lei si avvicinò piangendo, lo abbracciò e con la mano sinistra posò il ghiaccio secco nel lavandino.

- Aridaje, continui con queste stronzate, ma no spiegami, dove credi di arrivare? Ti stai chiudendo in un vicolo cieco di inutilità te ne rendi conto?
- Be, non è detto e poi magari a qualcuno piace, magari qualcuno cerca proprio questo, l'inutilità. Magari c'è gente stanca dei romanzi morali, o dei racconti con un fine, magari uno cerca una quotidianità inutile. Verosimilmente inverosimile.
- Sì, magari. Magari qualcun'altro ti manda affanculo.
- Affangulo, non affanculo ... affa ..
- eh?
- No, no niente!
- Ma sei scemo? Mi prendi per il culo? Prendi per il culo la tua coscienza?
- A parte il fatto che è tutto da dimostrare che tu sia la mia coscienza. Ho paura che lì dentro ci sia stato un qualche colpo di stato. Qualcosa mi dice che un superego malato, o qualche brutta paura ferita dell'infanzia abbia preso il potere.
- Ahh eccolo il piagnucolone, la mia infanzia, i bimbi cattivi, le mie insicurezze … e poi scrivi sta merda, sei negato! Lasciatelo dire: ne-ga-to! Come per tutto il resto!
- Certo se mi ritrovo te come coscienza, non è che mi sei molto d'aiuto e poi che ne sai tu? C'è tutto un nuovo movimento che ha abolito il reale e l'irreale e si dedica alle...
- Allimortacci tua!

Ricordavano ancora la prima volta che Frank provò una passione irrefrenabile per il ghiaccio secco. All'epoca, più di sei anni prima, in una classica partitella fra amici, si slogò una caviglia. Fu amore a prima vista. Quella sensazione glaciale e secca allo stesso tempo, che ibernava ogni cosa, senza la necessità di inumidirla, lo portò ad un feticismo irrefrenabile. Sembrava un bambino tutto preso dal piacere erotico della cacca. Di sguazzarvici dentro, con la fortuna che qui il ghiaccio era inodore e pulito.

- Ma allora fai sul serio? Non ti arrendi proprio davanti a nessuna porcheria?
- Non puoi negare che adesso sta iniziando ad uscir fuori qualcosa di interessante. Il ghiaccio secco come metafora (e mica tanto poi) di un subconscio erotico rimosso. Un'infanzia proibita che esplode in un campetto di calcio, con tutta la carica ormonica che ne consegue.
- Senti, parliamone serenamente. Lo sai qual è il tuo problema? Anzi senza punto interrogativo, lo sai qual è il tuo problema! Arrivano questi periodi e non sai neanche tu bene il perché, ma tutta quella voglia di scrivere ti passa. Dentro di te magari dici voglio scrivere, ma non hai la benché minima idea, oppure solo ideuzze, immagini, semplici scenette che non servono a niente, o non interessano nessuno. Poi magari le inizi e le lasci morire lì, incompiute.
Ti chiedi mai come si sente un'opera incompiuta? Hai mai pensato a quanto possa soffrire? A quante volte durante la sua vita si chiede cosa diavolo è nata a fare, anzi peggio, cosa diavolo è stata pensata a fare? Hai idea di quante volte ti maledica, dimenticata per sempre in un cassetto, o nello spazio immateriale di un hard disc, o peggio sfacciatamente pubblicata su un blog, incompleta e indifferente al mondo? Come quella storia di Giovanni Battisti, com'è che si chiamava?
- Cristiani Metropolitani e non riguarda Giovanni BattistA, ma la storia di Cristo, lo sai bene, narrata come fosse un fenomeno di costume.
- Embè e perché il tuo fenomeno di costume è rimasto a marcire nel nulla?
- Non è vero, io lo finirò!
- Ma chi prendi in giro, persino tu ti sei reso conto che è una stronzata!
- Lo finirò! E poi mi piaceva l'idea finale del racconto. Cristo paragonato ad una rock star di duemila anni fa, con il suo seguito di fan che non accettano la sua morte, e come per tutte le rock star iniziano a vagheggiare tesi che lo vogliono ancora vivo. Pensare che la Chiesa non sia altro che l'istituzione di un “Elvis è su un'isola del Pacifico” mi affascinava.

Come può accadere che un rispettabile padre di famiglia, unamoglie-duefigli-dueauto-villaegiradino, diventi schiavo di una pulsione feticistica da subconscio? Come si può di punto in bianco, ritrovarsi dipendenti di una follia libidinale da ghiaccio secco? Come si può superare ogni fase dello sviluppo infantile, ogni paura e fase anale, essere in grado di denunciare uno scippo e trattenere rutti in pubblico, comportarsi a modo con gli estranei e rispondere adeguatamente agli annunci di lavoro, per poi riscoprirsi disarmati di fronte al piacere di un freddo deumidificato?
Frank era ormai inerme davanti a tutto quello, o come la chiamavano in famiglia: “quella cosa di Franck” oppure “il problema del ghiaccio secco”. I sintomi si fecero avanti subito. All’inizio, quasi per gioco, Franck decise di comprare del ghiaccio secco così, da tenere in casa, non si sa mai. Poi senza accorgersene, si ritrovò a toccarlo di nascosto nel garage. In men che non si dica la sua pulsione diventò irrefrenabile. Quella delle posate era iniziata da due anni. Lo psichiatra James Fred Bullbindolhs, il miglior psichiatra della contea, plurilaureato e pluripremiato all’università Fred Bongusto del Colorado, diceva che anche quella turba delle posate doveva provenire da molto lontano. Era quasi sicuramente dovuta alla sua necessità inconscia di divorare il mondo e per questo la cacca. Tutto sembrava partire di lì, la cacca. Frank soffriva di stitichezza e ciò sembrava dovuto al fatto che un giorno la mamma lo vide giocherellare con quella e inghiottirsela con gusto. Il trauma di quei giorni si ripresentava sotto forma di posate e ghiaccio secco. Posate e ghiaccio secco. Posate e ghiaccio secco.

- Potevo essere la coscienza di un dipendente della Banca Mediolanum, di un postino di periferia, di uno ricercatore precario di particelle subnucleari, o chissà magari di Proust, Einstein, Kant, pure Nietzsche volendo, e invece di cosa mi tocca essere coscienza? Di un Pirla! Ora si è imbucato nella psicanalisi di sto cazzo!
- Bada a come parli sai! Bada bene! Badalù!
- Ma che cazzo dici?! Ma trovati un lavoro piuttosto! Cresci!
- Allora se proprio la vogliamo dire tutta, anch’io vorrei essere Proust o Kant o quello della Mediolanum, ma sai com’è mi ritrovo una coscienza come te e quindi il massimo che posso fare e scrivere storie di ghiacci secchi, turbe psichiche e Gesù Cristi. Ma dico una volta, una sola volta è possibile che non mi dici mai una parola di incoraggiamento? Ok, era un’idea di merda, però quella merda mi sembra di averla elevata, ci ho costruito su qualcosa che può andare, ho evitato accuratamente di chiudermi in un angolo, in un vicolo cieco.
- Puah! Ci rinuncio guarda ci rinuncio.
- E poi sai una cosa ora che lo rileggo, sai che mi piace! Davvero, secondo me è stupenda. Ha qualcosa di geniale tutto ciò, compresa questa mia conversazione con te?
- Non vorrai dirmi? O cristo! Stai riportando anche la nostra conversazione?
- Beh si, visto che c’ero ne ho approfittato, non si sa mai!
- Senza chiedermi l’autorizzazione! Questa è violazione della privacy!
- Al massimo della mia, tu resti sempre la mia coscienza!
- Quindi era tutta una trappola!
- Si, ed è stata un’idea magnifica!
- Brutto bastardo cosa stai cercando di fare fermati!
- No caro, mi sa tanto che questa battaglia la perdi! Ciò che ho scritto mi riempie di orgasmi!
- Noo! Stronzo il narcisismo noo! Non puoi giocare così sporco per uccidermi!
- Sì che posso, alla fine sono un grande scrittore, piaccio, c’è gente che si complimenta e se non fosse per te, sarei già al Premio Strega!
Sappi che ritornerò stronzetto, nelle notti in cui andrai a dormire sicuro di te, quando meno te l’aspetti, quando tu e quella puttanella narcisa sarete lì avvinghiati a sbaciucchiarvi, io piomberò di soppianto! Ti farò cadere in un solo attimo dall’ultimo cielo alle caverne delle tue paure. Puoi battermi e dimenticarmi coglione. Non puoi uccidermi!

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domenica 21 agosto 2011

Litania - storiella di una crisi


C’era una volta, un piccolo villaggio di nome Litania.
Questo villaggio era pieno di panettieri, se ne contavano trenta, e ogni panettiere produceva al giorno cinquanta panini al prezzo di un euro a panino. Tenendo conto che gli abitanti di questo villaggio erano millecinquecento, ogni abitante aveva il suo panino al prezzo di un euro.
Un giorno un panettiere, che si chiamava Paoloni, ricevette una cospicua eredità dalla morte di una sua lontana zia. Con questi soldi, decise di acquistare macchinari per produrre più pane e fare più soldi. Il primo giorno produsse settanta panini, al posto dei cinquanta abituali. Ma a fine giornata, si rese conto che i venti panini prodotti in più rimasero invenduti. Quella notte pensò a come rimediare a quell’inconveniente, ed ebbe l’illuminazione. Quei panini, disse fra sé e sé, non sono andati venduti perché tutti gli abitanti hanno avuto il loro abituale panino, dovrei fare in modo di vendere i miei panini a coloro che abitualmente lo comprano dagli altri panettieri, cosicché saranno loro a rimanere coi panini invenduti.
Il giorno dopo quindi, decise di fare lo stesso i settanta panini, ma di venderli a ottanta centesimi anziché a un euro. A fine giornata ebbe venduto tutti i suoi panini ottenendo un ricavo di cinquantasei euro, invece di cinquanta. Andò un po’ peggio per gli altri panettieri che si trovarono con qualche panino invenduto.
Via via che il tempo passava, il panettiere Paoloni, continuò con questa politica e attraverso il guadagno ulteriore che ebbe, acquisto altri macchinari con i quali poté produrre più panini ad un prezzo sempre più inferiore. Dopo un anno riusciva a produrre e vendere in una giornata al prezzo di cinquanta centesimi a panino, ben millecinquecento panini, ossia tutta la produzione di panini necessaria per il villaggio, ottenendo un ricavo giornaliero di settecentocinquanta euro, e causando la chiusura di tutti gli altri panettieri, i quali per poter mangiare, andarono tutti a lavorare nell’ormai azienda di Paoloni, che nel frattempo per i ritmi produttivi aveva bisogno di forza lavoro.
Ogni operaio ex panettiere, quando lavorava in proprio, percepiva un guadagno netto di quaranta euro giornalieri, ora sotto l’azienda di Paoloni otteneva un salario giornaliero di venti euro. In tutto i ventinove panettieri costavano all’azienda cinquecentottanta euro al giorno, più settanta euro di spese per materie prima, il signor Paoloni intascava ogni giorno, senza muovere un dito ben cento euro di guadagno.
Col passare degli anni il sistema continuò in questa direzione, e la necessità di continue migliorie economiche, aumento della produzione e dei guadagni, spinsero l’azienda di Paoloni a diminuire ancora di più il salario degli operai, che dopo solo due anni arrivò a dodici euro al giorno.
Non passò molto tempo però che Paoloni notò qualcosa di strano; esaminando i dati delle vendite, risultava un leggero ma costante decremento. Dall’ultima registrazione si evidenziava come si fossero venduti solo milletrecento panini invece dei millecinquecento. Causando una inflessione dei ricavi di cento euro. Più i giorni passavano e più le vendite diminuivano. Paoloni ingaggiò un team di esperti per indagare il motivo di questo calo e il verdetto fu presto detto: molta gente non aveva soldi a sufficienza per comprare il pane, questo pare essere dovuto ad una diminuzione dei salari degli ultimi anni. Serviva una soluzione urgente.
L’occasione furono le elezioni che si sarebbero tenute di lì a poco nel villaggio. Paoloni decise di intervenire e convincendo il dott. Fraudello, rinomato medico del villaggio che godeva del rispetto di tutti, a candidarsi, promettendo di risolvere il problema della crisi economica che alcune famiglie sentivano particolarmente. Ovviamente le ragioni che Paoloni usò per convincere il dott. Fraudello furono molto convincenti.
Una volta eletto sindaco il dott. Fraudello, disse che per risolvere il problema delle famiglie che non potevano acquistare il pane, esisteva un unico sistema: creare una banca in grado di prestare denaro alle famiglie che ne necessitavano per acquistare il pane. Ovviamente il prestito sarebbe stato onorato nel tempo coi relativi interessi. Il problema però fu che nel villaggio di Litania, quasi nessuno possedeva capitali tali, da poter aprire una banca. Quasi, perché l’unico che li possedeva era Paoloni, il quale con spirito caritatevole, decise di venire incontro alle esigenze del villaggio e fondò la Banca Paoloni, specializzata in prestiti. Il dott. Fraudello venne premiato per la grande idea partorita, entrando come socio della banca di una modesta ma rilevante quota societaria.
Così la politica creditizia applicata nel villaggio, sotto la protezione della Banca Paoloni, per la gioia dell’azienda Paoloni e sotto il benestare del sindaco Fraudello, permise a tutte le persone del villaggio di poter avere il proprio panino giornaliero, pagato a credito, coi soldi della Banca Poloni, permettendo all’azienda Paoloni di tornare ai millecinquecento panini venduti.
Nel giro di poco tempo l’azienda Paoloni decise di apportare una campagna pubblicitaria, volta a convincere i cittadini di Litania, in virtù delle nuove conquiste e del nuovo tenore di vita garantita dalla politica economica del villaggio, della necessità di avere non più uno, ma ben due panini al giorno per ciascuno. Così facendo, mentre il prezzo di un panino restava di cinquanta centesimi, quello di due panini era al prezzo omaggio di 80 centesimi. Sempre finanziabili a tassi agevolati dalla banca Paoloni.
Gli acquisti sfiorivano, l’azienda tocco la cifra record di duemilasettecento panini giornalieri, per un incasso lordo di circa duemila euro giornalieri. Inoltre proprio per le politiche industriali che imponevano un aumento della produzione, i salari degli operai subirono un’ulteriore inflessione, posizionandosi sugli otto euro giornalieri. Tutto volava a gonfie vele, ma il pericolo era dietro l’angolo.
A quanto era riscontrabile dai dati della Banca Paoloni, i prestiti effettuati ammontavano a centomila euro in totale, di questi centomila euro si era calcolato che solo quarantamila erano sicuri. Dei restanti sessantamila, cerano altissimi rischi di insolvenza, molti operai infatti non erano in grado, con gli otto euro giornalieri, di far fronte ai debiti accumulati. La banca Paoloni, per risolvere questo problema convinse il sindaco Fraudello a varare una serie di provvedimenti, che consentivano la creazione di pacchetti bancari. In sostanza si trattava di pacchetti in cui furono inseriti spezzettati, i debiti insolvibili dei vari debitori della banca. Questi vennero venduti ad altri azionisti, ad un prezzo inferiore a quanto si sarebbe ottenuto dal debito stesso, garantendo così agli acquirenti, futuri e improbabili ricavi. Questi pacchetti viaggiarono di villaggio in villaggio, e ad ogni fermata, nella rispettiva banca, venivano aperti mischiati con altri pacchetti e rivenduti ad un prezzo maggiore. Nel giro di poco tempo il prezzo di questi pacchetti, ormai fuori controllo era diventato esorbitante. Non ci volle molto tempo che una banca proprietaria di questo pacchetti, restò col cerino in mano, rendendosi conto che da quel pacchetto di debiti spacchettati e ricomposti non avrebbe ottenuto nemmeno un euro, era carta straccia insolvibile, ben presto la notizia fece il giro dei villaggi e le banche si ritrovarono in una crisi di liquidità pazzesca. Per di più alla notizia delle perdite, molte delle persone che avevano la fortuna di avere dei risparmi nella banca, decisero di ritirare il denaro, aggravando ancora di più la situazione.
Paoloni era nei guai e doveva pensare assolutamente ad un sistema per ripianare la situazione economica della banca, la quale ormai si era automaticamente riflessa sull’azienda, giacché molti insolventi non avevano soldi per acquistare pane, a tanti altri non furono più concessi prestiti e con le poche entrate economiche, non potevano più permettersi i ritmi di prima, il necessario licenziamento di alcuni operai, a causa della diminuzione della domanda di pane, fece il resto.
L’unica cosa urgente da fare, fu chiamare il sindaco Fraudello per trovare una soluzione alla crisi economica che attanagliava il villaggio. Era necessario disse Paoloni a Fraudello che per risanare l’economia, il villaggio, con le tasse dei cittadini, sostenga la banca in crisi attraverso finanziamenti, i quali avrebbero permesso così di rassicurare i risparmiatori e continuare a prestare soldi ai poveri operai per l’acquisto del pane. Il piano fu varato in pompa magna e con massima urgenza, facendo capire ai cittadini l’importanza del provvedimento per uscire dalla disastrosa situazione economica. Per fare questo quindi, erano necessari ulteriori sacrifici, un piccolo aumento nelle tasse e tariffe ed un maggior sforzo produttivo degli operai, i quali lavorando un po’ di più, avrebbero creato più ricchezza per il villaggio. Non andò esattamente così, la disoccupazione di vari operai, sommata ai bassi livelli salariali, ottennero come risultato, delle entrate tributarie ben al di sotto delle previsioni e del prestito elargito. Aggiungendo poi che il villaggio era ormai da più di dieci anni in guerra col vicino paese di Cereal, noto per la sua enorme produzione di grano, il cui sindaco era accusato dal dott. Fraudello di non rispettare i diritti dei suoi cittadini. In virtù di questo, Litania spendeva più di duemila euro al giorno per far rispettare i diritti in quel villaggio, si capisce bene come la situazione economica del Villaggio fu pesantemente messa a repentaglio. Con un debito che superava i centomila euro. Le banche dei villaggi vicini iniziarono a ritenere poco sicura Lituania per via del suo enorme debito e iniziarono a speculare su di essa. Nel frattempo la Banca Paoloni, non mosse un dito fino a che Lituania non arrivò sull’orlo del fallimento, a quel punto il magnanimo Paoloni rassicurò il sindaco Fraudello e i cittadini. Si dimostrò interessato a risolvere la situazione debitoria attraverso dei prestiti per risanare i conti pubblici, ma a condizione che per la restituzione del debito, si sarebbe seguita la politica indicata da Paoloni: tagli a tutti i servizi del comune, via i giardini inutili, via i bagni pubblici che consumano enormi risorse, via i semafori e la segnaletica stradale, via gli asili e le mense per i poveri. Inoltre andavano fatti sacrifici. Gli operai di Litania, i quali non potevano pensare di continuare con un tasso di vita e di produzione simile, dovevano lavorare di più e guadagnare un po’ meno, diciamo intorno alle cinque euro al giorno, solo così l’economia del paese sarebbe potuta risalire, e il debito onorato.
Questa storia purtroppo non ha un finale, non ancora. Il popolo di Litania infatti sta leggendo nel frattempo una storiella familiare, quella del popolo di Italia, un piccolo villaggio…
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mercoledì 17 agosto 2011

Amori andreottiani e champagne (quanto basta)


- Cameriere, champagne! ... Anzi no, cameriere per me una cedrata e per lei … beh per lei una peroni.
Ma a chi parlo, che qui manco ci sono i camerieri. Mi sarebbe piaciuto però che almeno loro dessero un tono alla nostra storia.
Carlotta alza lo sguardo dal suo cellulare e mi guarda spaesata.
- Con chi ce l’hai? Parli da solo?
- È una vita che parlo da solo, a dirla tutta neanche da solo, qui dentro è peggio di un’assemblea di condominio!
- Sì certo, sempre la solita solfa intellettualoide, uff non mi dici mai niente.
- Cosa dovrei dirti? Cosa vuoi da bere?
- Una birra?
- Me lo chiedi?
- Tu cosa vuoi?
- Champagne!
- Dai dì, che vuoi?
- Per brindare a un incontro!
- Quale?
- Una zanzariera arrugginita.
Carlotta tornò al suo cellulare stanca. Io più di lei, avevo solo voglia di farle male, ferirla inutilmente. Poter vedere fino a che punto ero in grado di stringere la sua anima e soffocarla. Mentre lei si faceva rubare l’aria. Era una fiamma rinchiusa in un bicchiere di vetro, non avevo idea di dove trovasse quel briciolo d’aria per restare viva, ma la luce era impercettibile ad occhio umano.
Mi amava come una bambina raggomitolata in un angolo. Non riusciva ad amarsi, tentava di aggrapparsi al mio cinismo. Avrei dovuto insegnarle ad amare, o ad amarsi, compito difficile per me che non sopporto neanche il mio sudore.
- Cos’hai?
- Ho un gatto. Qualche libro e le mie pantofole blu.
- Dai, veramente, ti vedo giù oggi, cos’hai?
- Più niente. Solo il vento.
Il suo sprizzo disinteressato si schiantò contro pensieri lontani. Anche lei ne aveva, credo anche più lontani dei miei, un giorno l’ho vista bene e ho capito che anche lei sentiva le voci, solo non le distingueva, pensava fossero un tutt’uno.
- Che vuoi da bere?
- Ti lascio!
- Vabbene mi lasci, sei sempre il solito. Mai una cosa dolce.
- Ti lascio, bignè alla crema.
- Vai a ordinare per favore?
- Ci ho pensato a lungo e ho capito tutto di te.
- Cos’hai capito, sentiamo?
- Tu sei andreottiana nei rapporti. Sì è questo il termine giusto, andreottiana!
- Questa è bella, sarebbe a dire?
- Il tuo motto è: meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
- Vabbene!
- Ecco appunto, vabbene. Cosa poi? Stiamo morendo asfissiati dalle nostre reciproche indifferenze, non voglio una peroni, non voglio una cedrata, non voglio uno champagne, non voglio una sambuca!
- Cosa vuoi?
- Voglio che tu ti spoglia, qui davanti a me. Voglio che scappi, mi dai uno schiaffo e mi dici: è finita! Voglio le tue lacrime sul mio egoismo, voglio che ci provi con un altro solo per farmi ingelosire, voglio che mi tocchi il cazzo in pubblico, voglio un bacio con la lingua mentre siamo con gli amici, voglio, voglio, voglio…
- Cosa vuoi?
- Voglio vederti amarti. Voglio che ti senta la più figa delle donne che ha scelto uno stronzo come me per farlo soffrire ancora. Donna! Voglio sentire i complimenti scivolarti addosso come sudore, per infilarsi fra i tuoi seni. Voglio che ogni critica trovi la tua risata pronta.
- Stai parlando di un’altra donna.
- Forse. Ma avrei tanto voluto che fossi tu.
Il barista ci guardava indispettito, eravamo lì da più di mezz’ora e non avevamo preso niente.
Mi alzai, svuotato.
- Andiamo non voglio più niente.
Ci dirigemmo muti verso casa all'orizzonte.

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mercoledì 20 luglio 2011

Cristiani Metropolitani - II


Il ritorno di Giovanni Battista: Acqua a volontà!
Il profeta giudeo torna a far parlare di sé e battezza un’intera comunità ribelle
di Gioele Maccabì

Cari lettori, poco tempo fa come ricorderete, all’interno delle nostre inchieste dal medioriente, ci siamo occupati degli strani movimenti di queste terre. Non sappiamo se si tratta di mode passeggere, è evidente però come molta gente ed in particolare molti giovani, siano attratti da queste nuove ondate di spiritualismo, i cui confini con la politica restano tutt’ora indecifrabili.
Come ricorderete faro di questo movimento pare essere uno strano personaggio, reduce da un periodo di “riflessione” nel deserto, che si dice portatore di verità nuove e di una nuova via di “salvezza”. Il suo nome è Giovanni Battista e a quanto pare, farà parlare di sé ancora per molto.
È di questa settimana infatti la notizia che il profeta giudeo abbia iniziato, alla moda dei religiosi orientali ed egiziani, a far battezzare i propri adepti.
Breve spiegazione per i nostri lettori: il battesimo altro non è che un’usanza propria di varie religioni mediorientali, le cui origini possono ritrovarsi nei lontani culti egizi e non solo. Consiste in buona sostanza, nell’immergere l’adepto con la testa nell’acqua, per mano di un religioso officiante. Attraverso questa usanza «l'iniziato dopo un periodo d'indottrinamento viene immerso in una vasca contenente acqua lustrale che, cancellando tutte le colpe del passato, gli permette di ricevere come premio la vita eterna se rispetta le regole dettate dalla religione che ha abbracciato» [http://it.wikipedia.org/wiki/Battesimo]
Questa pratica nota anche nella religione giudaica, è stata riproposta dal Battista. Dov’è la novità, direte voi? Ebbene la rivoluzione, o insubordinazione se vogliamo, sta nel fatto che questo rito viene da lui officiato, al di fuori delle regole, dei dettami e della tradizione giudaica. Egli infatti ha iniziato a battezzare gente non già nel nome di Abramo, bensì in una nuova fede, tanto che coloro che si fanno battezzare da Giovanni Battista, lo fanno nel nome di una conversione ad una non meglio identificate fede.
In verità sotto questo punto anche lo stesso Battista appare piuttosto vago e contraddittorio. Egli infatti nega di porre una scissione all’interno della tradizione giudaica, tuttavia pare quasi distaccarsene di fatto, annunciando l’arrivo di un Messia.
Abbiamo quindi provato a fargli qualche domanda, per specificare bene i termini di queste sue parole e lo abbiamo così seguito durante uno delle sue esibizioni battesimali.
Abbiamo tuttavia trovato a proteggerlo numerose guardie del corpo, che ci hanno impedito di avvicinarlo durante tutta la celebrazione. A fine spettacolo però, siamo riusciti ad avvicinarlo e alla nostre richieste di delucidazioni ha risposto: «Mi spiace ma al momento, non posso aggiungere altre dichiarazioni, oltre quelle già dette. Per conto mio le posso assicurare che ciò che dico è tutto vero e saranno i fatti a dimostrarlo. D’altronde la fede di tutta questa gente che lei può constatare di persona, non può essere dettata da futili emozioni e credo siano la prova più vera alle mia parole». Alla nostra insistenza sul significato del Messia ha però sviato con un lapidario no comment.
Abbiamo assistito come detto ad una esibizione pubblica di battesimo. Questo, eseguito categoricamente nel fiume Giordano, assume i tratti di una gioiosa festa. Diversi sono i seguaci accorsi qui per celebrare una conversione, attorniati da musiche improvvisate e girotondi inscenati per l’occasione. A prima vista sembra davvero un campeggio hippie. Dopo il battesimo ogni fedele viene accolto da abbracci, baci e sincere congratulazioni dagli amici e dagli altri fedeli, mentre il Battista dispensa qua e là perle di saggezza.
L’impressione conclusiva di questa giornata e più in generale di questi strani movimenti, resta a voi lettori. Di certo da parte nostra siamo convinti che non sarà certo l’ultima puntata di questa moda che sconvolge, sfugge e destabilizza le tradizioni e l’ordine calmo di queste terre esotiche e millenaristiche.
Non ci resta quindi che aspettare la prossima puntata.

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lunedì 18 luglio 2011

Lettera d'amore odio e cous cous (con solitudine in fa#)


Ora ti starai chiedendo. Ma come si cucina il cous cous di verdure? O di chi è quella canzone che fa – eri triste nel tuo collare a collo alto – No, forse era – comprami un giglio a Palo Alto, saremo io e te una balaustra arrugginita dal sole caldo di libeccio - No scusami, sono serio. Ti starai chiedendo perché scrivo ancora lettere, ostinatamente lettere, inviate per corrispondenza ordinaria al tuo domicilio. Sai non vorrei essere troppo diretto. Non vorrei che fra di noi si fraintendesse la frenesia istantanea di una e-mail. Preferirei decantare le nostre corde nei tempi tecnici di spedizione.

Ora immagino che il postino starà vagliando le lettere in base al Comune di destinazione, mentre io ripenso a qualcosa che ancora non ti ho scritto, eccezion fatta per quella parte di lettera che va da – Ora ti starai chiedendo. Ma come si cucina il cous cous di verdure? – fino a – eccezion fatta per quella parte di lettera che va da - e tutto questo, giuro mi fa impazzire e ancor di più il pensare che non saprò mai il momento preciso in cui leggerai questa lettera, il non sapere esattamente in quel momento cosa farò io.
Ma la cosa che più mi manda in bestia, è il non saper prevedere l’attimo in cui tu coglierai il senso vero di questa lettera, che sarà a te palese nell'istante in cui percepirai un cambio repentino, e nei contenuti e nella forma stessa di questa.
Ma bando alle ciance. Urge che il nostro senso, il mio, il tuo e quello di questa lettera, raggiunga un senso proprio, piuttosto che un ostinato gingillarsi di imbarazzi.
Ti lascio. Mia cara ti lascio. Ecco l’ho scritto.

- Da questa parte in poi è possibile rilevare il cambio repentino della lettera sopra accennato -

Ora come da copione immagino che tu non ti accontenti solo di questa enunciazione diretta e immediata. Sono certo che in virtù del rapporto che ci lega e che ci ha portato a condividere fisicamente e intellettualmente svariati secondi della nostra vita, riassumibili in molteplici minuti, ridotti all’osso di eccessive ore, o se preferisci, diversi giorni intricati in qualche mese e perché no, degli anni; esigi sapere le motivazioni a margine di questa mia ponderata scelta, ebbene te ne do atto, è lecita la tua come richiesta, un’unica cortesia però, non avercela con me per non aver preso il coraggio a due braccia e aver delegato una lettera al posto della mia persona nel dirti tutto questo, credimi, una lettera è degna quanto me di dirti dei miei sentimenti.
Perché dunque: ti lascio. E questo già non è poco, neanche come spiegazione. Ti lascio, mia cara e innanzitutto mi meraviglio di riscoprire così dolce e friabile questa parola, che mi pareva acida e dura, come il caramello indurito.
Ti lascio per il caldo, non sopporto l’averti appiccicata a queste temperature, l’addossarsi dei nostri sudori in abbracci e baci afosi. L’innaturale ostinazione nel voler dormire avvinghiati nello stesso letto, credimi, neanche le zanzare apprezzano tutto questo;
Ti lascio per la tua deprecabile abitudine di gridare – Che hai detto? – quando la mia voce non giunge alle tue orecchie. Avrei preferito piuttosto il far finta di aver sentito;
Ti lascio per la tua moderata passione per i Queen. Lo sai che li detesto;
Ti lascio per quella volta che persi l’ultimo treno a causa del tuo amore clandestino con le vetrine;
Ti lascio per tutte le volte che non mi hai permesso di lasciarti;
Ti lascio per come cucini il cous cous alle verdure;
Ti lascio per come impugni la caffettiera al mattino;
Ti lascio per come dormi al pomeriggio;
Ti lascio per come lavi i piatti;
Ti lascio per come mi hai incasinato il desktop;
Ti lascio per aver fatto amicizia coi miei amici, i quali ora soffriranno del nostro lasciarsi, cazzo vogliono quelli poi? Un giorno lascerò anche loro;
Ti lascio perché ti ostini a chiedermi del fuorigioco. Te l’ho detto, non ne ho idea neanch’io, anzi lo vuoi sapere un segreto? Nessun’uomo lo sa, ma tutti fanno finta di saperlo, compresi gli arbitri;
Ti lascio per la benzina che ho speso per venirti a prendere sotto casa in tutti questi anni, credimi non è una cosa personale, è che i benzinai, il governo, i petrolieri, il capitalismo stesso si frappone a noi. E poi hai idea di quanti danni all’ambiente. Si ok, neanche a me, era giusto per…;
Ti lascio per le tue scarpe, non mi hanno mai convinto fino in fondo;
Ti lascio per la tua spensierata predilezione per i reggae party in spiaggia d’estate, ecco qui il problema è che sono invecchiato male, odio il reggae, detesto la sabbia, disprezzo le zanzare, e maledico la salsedine al mattino. Inoltre, ho un mio conto in sospeso coi giovani e l’alcool, ma vorrei che tu restassi fuori da tutta questa storia;
Ti lascio per come parcheggi, per le spine di pesce, per il pesce che non sai pulire;
Ti lascio per il tuo amore per il fritto, è tutto grasso che cola;
Ti lascio per il caffè che non sai fare, per il bucato che non sai stendere, per i pavimenti che non sai pulire, per il naso che non sai soffiare, per le lacrime che non asciughi. E non darmi del misogino, non ho idea di che significhi;
Ti lascio per come rispondi al telefono;
Ti lascio per come sorridi in foto;
Ti lascio per non aver mai litigato con me, o per lo meno, non come avrei voluto;
Ti lascio per un’altra: la solitudine;
L’altra sera ci siamo amati davvero, come la prima volta. L’abbiamo fatto dieci volte, giuro me lo faceva venire duro come non mai. Non avercela con lei. Lei non ha detto una parola quando l’ho lasciata per te.
Non vorrei che vi conoscesse, certo questo no. Per nulla al mondo permetterei che tu e la mia solitudine vi frequentasse, potrei ammazzarvi.
O meglio ancora. Ammazzarmi.
Ciao cara. Ricordati di mettere le zucchine nel cous cous.

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