"Consiglierebbe la carriera di scrittore?" mi chiese uno degli studenti.
"Stai cercando di dire amenità?" gli chiesi.
"No, no parlo seriamente. Consiglierebbe la carriera di scrittore?"
"È lo scrivere che sceglie te e non tu lo scrivere."

Charles Bukowski

venerdì 29 aprile 2011

Conversazione con Rasputin

segue da qua
Conversazione con Rasputin
Mi prendono sul serio solo quando sono serio.  Il mio sogno? Un amore caseario


Entro in una sala grandissima e bianco candida. Alle pareti solo qualche quadro, qua e là. Senza pretese. In fondo alla sala ci sono due poltrone in pelle nera ed un tavolino di ferro con su poggiate, due tazze di tè fumante. Nella poltrona più in fondo lo trovo accomodato, mentre si accende una pipa. Mi aspettava premuroso. Bisogna dirlo, con gli ospiti Rasputin è abbastanza puntuale e diligente. Perché nonostante tutto mi vede cosi, un’ospite in-atteso, piuttosto che un intervistatore.
D – Spero di non averla fatta attendere molto.
R – Non si preoccupi. Lei era atteso.
Mentre parliamo un gatto salta sullo schienale della poltroncina e si accomoda fra le braccia di Rasputin, che inizia a coccolarlo.
R – Allora amico immaginario, dimmi, da dove vogliamo partire?
D – Io inizierei dal nome del suo blog: Il Finimmondo, com’è nata l’idea? Perché questo nome cosi enigmatico?
R – Vedi Dave, tutto è iniziato qualche anno fa, forse solo uno o giù di lì. Io ancora prima di questo avevo un altro blog, si chiamava attoazione, ed al contrario di questo era su splinder. Il nome attoazione proveniva da Carmelo Bene. C’è la famosa puntata al MCS, dove spiega perfettamente quella che per lui è la differenza fra atto e azione, dove l’atto è il gesto puro e inconsapevole, mentre l’azione è la storicizzazione dell’atto, che se ne appropria divenendone, fraudolentemente autore. (il video è visibile qui ndr). Quella era l’epoca pre facebook, dove i blog andavano forte, un’altra epoca. Quel blog morì d’asfissia in un’ora d’aria. Poi, per un certo periodo mi sono debloggizzato. All'improvviso, tutto è nato per caso: proprio come l’atto. Il titolo mi frullava in testa da un po’: la fine del mondo causata dall’immondo. Ipotesi oscene sulla prossima era glaciale: come a dire che il mondo può finire anche perché finisce la carta igienica, o digiti per errore CTRL – ALT- CANC.
D – Una deriva degli incontinenti quindi. Come si è cimentato nella scrittura di racconti? Aveva già delle idee in testa?
R- Avevo il vuoto assoluto e questo è davvero tutto. Credo che la cosa più bella e interessante che abbia scritto in questo blog, sia stato il primo post, quello dove spiego cos’è il finimmondo. Per il resto i racconti nascono perché non riesco a scrivere cose più lunghe. Il motivo è presto detto: non ho la minima idea di cosa scrivere. Tranne rari casi in cui ho una scaletta e i risultai sono disastrosi, preferisco attuare il sistema Snoopy: inizio a scrivere qualcosa a caso, tipo - Era una notte buia e tempestosa. A un tratto echeggiò uno sparo! Una porta sbatté – e poi mi incarto, non so come andare avanti e così mi fermo sul più bello.
D – Quindi non vedremo mai un suo romanzo.
R – Ecco, hai colpito nel segno. In realtà tutto sin dal principio, forse pure prima di attoazione è partito con un romanzo. Che ancora non ho finito di scrivere, e non so se avrà mai fine. Una cosa che ritorna ciclicamente e che ciclicamente qualcuno mi rimette, in un modo o nell’altro sotto gli occhi.
D – Vale a dire?
R – Ok. È una cosa che ho iniziato a scrivere 4 o 5 anni fa. Si chiama “Io non credo che venga”. Ed è ambientato principalmente a Magenta. La cosa assurda, è che non avevo idea all’epoca, nemmeno dell’esistenza di questa città. Eppure sono riuscito a descriverla perfettamente, ambientandola fra le montagne. Ora, quando torno a rileggere ciò che ho già scritto, mi fa schifo. Non comprerei mai un libraccio del genere. È un piagnisteo di fallimenti e buoni consigli. Il fatto è che non è ancora finito. Forse non è ancora neanche iniziato. In 5 anni ho scritto 13 pagine. Forse è solo un qualcosa che mi tiene stretto alla scrittura. Appena succede che l’abbandono per un po’, inizio a vedere dovunque vie Magenta. Indirizzi di pizzerie, coffe shop, erboristerie, case vacanze, ferramenta. Tutti sono in via Magenta.
D – Interessante. Ecco ci spiega come avviene il suo processo creativo? Come inizia a scrivere? Da dove parte?
R – Guarda Dave. Innanzitutto io non creo nulla. L’ho detto prima, le cose escono da sé. Quelle poche volte che provo a creare io, non ne esce nulla di buono. Sono una schiappa. Ecco nella Bibbia i profeti dicevano d’essere guidati dallo spirito divino. Vale la stessa cosa per me. Ho uno spirito un po’ trimone (termine barese per indicare una persona stupida ndr) che si diverte con me, organizzandomi scherzi stupidi. Tipo il vecchietto che attraversa la strada la mattina presto, mentre sono in ritardo, i rossi fissi, gli autobus che non arrivano mai, tranne quando ti accendi una sigaretta. Poi però mi lancia delle dritte non da poco, quando devo scrivere qualcosa.
D – Interessante questo lato metafisico per un ateo come lei, non crede che sia una contraddizione?
R – Vorrei ricordarle che sto tenendo un intervista con l’amico immaginario della mia infanzia…
D – D’accordo, allora una domanda che si usa spesso in questo genere di vernissage: com’è il suo rapporto con il pubblico? Per chi scrivi?
R – Il rapporto è cordiale e discreto. Ci salutiamo, ci diciamo buongiorno e buonasera, ma niente più di così. Di questi tempi è bene che ognuno rimanga al suo posto, non si sa mani che pubblico ti può capitare. Un mio amico aveva dato confidenza una volta ad un pubblico e gli hanno svaligiato la cartella Riguardo alla seconda domanda non saprei proprio che dire. Mettiamola così: scrivo per la mia lattaia di fiducia, spero che un giorno noti le mie opere e si innamori follemente di me. È il mio sogno: un amore caseario. In tutti i sensi.
D – A cosa allude?
R – Al latte in polvere.
D – Il riscontro del pubblico invece nei confronti del blog com’è? Dopo un anno di attività crede che il bilancio sia positivo o negativo? Qualcosa da migliorare?
R – Ho qui i dati (apre una cartellina con dentro una serie di fogli ndr) il picco di visite si è raggiunto nel marzo 2011, devo dire infatti che in questo mese c’è stata un’intensa attività produttiva, da Control/Alt/Canc a Simulacro, a Millenovecentonovantaventi. Per quanto riguarda il post più letto pare essere: Il Finimmondo (come le dicevo prima infatti è il post migliore del blog), seguito solo da Il mio secondo viaggio e La narrazione emotiva. Come dire: mi prendono sul serio solo quando sono serio. Detto questo penso che il bilancio possa essere positivo, anche se bisognerebbe riempire certi tempi morti. Avevo pensato a tal proposito di ingaggiare una squadra di ballo per alcuni spettacoli intrattenitori.
D – Ecco a questo punto io passerei al secondo passo. Il suo avvento sulla nuova piattaforma Tumblr con Postribulo.
R – Grazie Dave per questa domanda. Postribulo è stata anch’essa una illuminazione estemporanea. Premetto che prima di iniziare non avevo idea con precisione di come funzionasse tumblr. Conoscevo persone che l’avevano e le seguivo, ma non ero addentro al funzionamento. Quindi ho deciso di partire con una mia idea, che ho imposto al funzionamento autonomo di Tumblr e che devo dire funziona.
D – Ci spieghi meglio.
R – L’idea era quella, visibile nella descrizione del primo post “Condizioni d’suo”, di creare brevi composizioni sonore. Un post al giorno. Nulla di più. Inesorabile. Ovviamente questo mi impedisce di poter rebloggare altro, di poter scrivere qualsiasi cosa mi salti in mente, ma di continuare spietato il mio lavoro, incurante della marea di tumblr. Come dicevo prima, non avevo idea del funzionamento di tumbr, prima di iniziare, quindi era un salto nel vuoto, che però si è rilevato azzeccato. Ora ho un discreto pubblico che aumenta esponenzialmente e che ogni giorno mi aspetta. Per lo più è composto da quindicenni ribelle, casalinghe frustate amanti del sadomaso, feticisti delle merci, ermetici boccacceschi, e casse armoniche da giardino.
D – Come si è trovato a cimentarsi con la poesia?
R – La mia non è poesia. Ti denuncio!
D – Beh, ma come no? Le sue sono composizioni di suoni, che si esprimono in versi.
R – La poesia è ruffiana ed equivoca. Il mio invece corrisponde all’incomunicabilità come paradigma assoluto.
D – L’incomunicabilità è equivoca.
R – L’equivoco è equo.
D – E ciò cosa vuol dire?
R – Niente, appunto.
D – Perché il nome Postribulo?
R – All’epoca ebbe molto successo quel vocabolo. Diciamo che la vita è un postribulo, che le parole potevano esserlo, e che tumblr sicuramente lo è.
D – Avrà mai fine?
R – Certo, finirà a 365.
D – Ha progetti per il futuro?
R – Questa sera vado al compleanno del mio amico. Compie 30 anni. Quando aveva 18 anni non ci conoscevamo.
D – E più a lungo termine?
R – Sto scegliendo la colonna sonora per il mio funerale?
D – Qualche anticipazione?
R – Nino Frassica leggerà Karl Popper.


Dave Maccicarelli
Ghost Writer
Amico immaginario

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venerdì 22 aprile 2011

Convergenze


La settimana scorsa sono andato dal gommista, per la convergenza alle ruote. Mentre ero lì, affascinato come un dodicenne davanti a "Cronaca Vera", inebriato dall'odore di gomme incelofanate, dalle fragranze di garage e dalla elettronica sapienza machista degli operai specializzati, è entrato nell'autofficina una persona che non vedevo da molti anni. Ci siamo squadrati per un po' con gli occhi, mentre i nostri database, effettuavano una lunga ricerca, nelle nostre memorie non proprio vergini, poi in fondo in fondo, ci siamo ritrovati. Era lui: il mio amico immaginario. Era passato davvero tanto tempo ed entrambi lo dimostravamo. L'ultima volta che ci siamo visti, sarà stato diciassette anni fa. Io avevo nove o dieci anni, eravamo in macchina con i miei e avevamo avuto l'ennesima discussione violenta. Quella volta non andò come le altre: presi il coraggio in due mani e chiesi a mio padre di accostare. Lo feci scendere e gli dissi queste parole:
 - Mi dispiace, questo momento doveva arrivare. Io sto crescendo e per il mio ed il tuo bene, è meglio che le nostre strade si dividano qui. Sono stato bene con te, mi sei stato vicino nei momenti bui, ma adesso, adesso basta. Ciao, buona fortuna.
Come potete immaginare, l'imbarazzo all'inizio era palpabile, a quanto pare lui aveva sofferto l'abbandono più di me, ed io, nell'incoscienza di un bambino, non avevo capito come, anche un amico immaginario, può avere dei sentimenti. Dopo la convergenza decidemmo di andarci a prendere un caffè e raccontarci un po' di noi. Lui a quanto pare dopo l'abbandono ha avuto un periodo di sbandamento, in cui è passato anche dalla droga, ma adesso sta benone. È diventato un esperto di comunicazione, lavora presso un'azienda pubblicitaria che si occupa a 360 gradi dello sviluppo dell'immagine. Dopo quella conversazione gli ho detto anche di come me la passo, di questo blog e ha detto che sarebbe stato molto felice di darmi dei consigli per migliorarlo. Secondo studi di settore, mi ha detto, un blog personale per essere accattivante, deve mettere in luce l'autore, deve esplicitare interessi, debolezze, hobby, deve cioè renderci l'autore più umano, vicino, riconoscibile. A questo proposito si è offerto di farmi un'intervista, cosi da rendere più confidenziale il mio rapporto con i lettori. 
Ora, io sarei disponibile da subito, gli ho detto:
- Ok, vai con la prima domanda!
Ma lui, seduto qui affianco, mi ha subito ammonito:
- E no! Prima importantissima regola: mai essere prolissi su un blog, se la gente vede troppa roba scritta, difficilmente si metterà a leggere tutto. Seconda regola:  Suspense...
Quindi cari lettori per farla breve, l'intervista col mio amico immaginario, esperto di immagine e comunicazione, la faremo nel prossimo post.
Anzi, mi ha appena sussurrato che se qualcuno di voi ha delle domande, può scriverle nei commenti, per creare una relazione pubblico-autore...mica scemo lui.
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martedì 19 aprile 2011

Ad un uomo barbuto


Marta mi ha regalato un'agenda bianca. Sulla prima pagina ha scritto una dedica – Ad uomo barbuto – non so esattamente come prenderla. Per lei sono anzitutto questo: un uomo barbuto. Ai suoi occhi, tutto questo ha un significato particolare, che a me sfugge. Mentre sfoglio l’agendina, appoggia la testa sulla mia spalla e osserva l’orizzonte, fra cielo e mare. Poi con una mano prende ad accarezzarmi la barba. Io chiudo l’agendina e mi stendo sulla sabbia. La leggera brezza primaverile inizia a scavare fra i nostri indumenti, arrivando ad accarezzare i nostri peli. Bacio la fronte di Marta e mi alzo, vedo diluirsi il sole nel mare, mentre mi accarezzo la barba. Io e Marta abbiamo fatto sesso solo una volta. La prima volta che ci siamo conosciuti. Dopo di allora è stato solo uno scambio epistolare di stati d’animo. Alle volte non la sopporto, mi sembra di affogare in una sorta di melanconia gelatinosa. Uno di quei rapporti al miele che mi portano, come contraltare, a dover passare settimane a nutrirmi di carne cruda e birre in bottiglia e girare per casa ruttando in mutande. Altre volte la cerco. Come si può cercare una lezione di yoga, una settimana alle Maldive, o un corso di cucina. I nostri tormenti si appoggiano l’un l’altro e più che ascoltarsi o commiserarsi, viaggiano in una dimensione parallela, fatta di uomini barbuti, lettere tonde, parole musicali e cene giapponesi. Sfoglio, tra me e me quell’agendina e cerco la frase giusta per iniziare a imbrattarla, non importa ciò che verrà dopo, o magari ne sarà dannatamente condizionato, da quella prima frase, che detterà il registro a tutto. Penso che potrei scrivere per Marta. Che dovrei iniziare con un qualcosa che potrebbe piacere a lei. Magari poi fargliela leggere, per mostrarle che ha centrato il regalo giusto per me. O forse no, dovrei iniziare con un qualcosa così a caso. Potrei iniziare con una parola, una frase, un immagine e poi vedere che esce. Sapessi disegnare, potrei nel frattempo fare una figura, magari io e Marta, o la mia barba per rimanere in tema, ma rovinerei irrimediabilmente l’agenda, con qualche scarabocchio. La lancio ai bordi del letto e osservo il soffitto. Mi verrà qualcosa. Accarezzo ancora una volta la mia barba. Ispida e ondulata. Agguanto un ciuffo nel mezzo del mento e lo seguo tenue dalla radice fino alla sua punta. Finisco per giocarci, per arrotolarlo in riccioli nervosi. Strappo qualche pelo e me lo osservo in controluce. Ne misuro la sua lunghezza, la sua consistenza, la sua fattezza, rude e compatta. Decido in un istante. Mi alzo di colpo e lo dico – Basta. Mi taglio la barba. Mi rado completamente – mi sembra per un attimo di aver detto e pensato qualcosa di blasfemo. Come se appartenessi a qualche strana tribù ultrareligiosa che vieta la rasatura, come vergognosa inflizione personale. Mi ribello a ciò che sono, alla mia immagine consolatoria che si ripara attorno a questa pelliccia protettiva. Uno strapparmi la pelle di dosso per gettare tutto nella fogna. Liberarmi. E anche se non oso dirmelo, lo so, liberarmi di Marta. Lo specchio mi sorride, quasi come il mio barbiere, quando mi rivede dopo decenni per una spuntatina. Il sorriso di un aguzzino che ti aspettava, calmo e sicuro. La forbice sfoltisce. Il rasoio estirpa. In dieci minuti la pelle è libera e sanguinante. Una lotta estenuante per la liberazione dal pelo. Il giorno dopo, chiamo Marta per vederci. L’appuntamento è allo stesso molo. Con me ho l’agenda. Arrivo in anticipo. Quando mi vede si mette le mani al volto ed esclama: - No! Perché? – io la guardo per un attimo negli occhi e le dico – Mi spiace, l’uomo barbuto è morto sgozzato – abbasso lo sguardo e le porgo l’agenda – Non sapevo che scrivere – e accarezzandomi la faccia vergine aggiungo – Quando rivedi l’uomo barbuto consegnalo a lui – lascio cadere il regalo nelle sue mani e vado via.
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domenica 10 aprile 2011

L'orologio svizzero



- Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac. -
Erano le 5:00 di pomeriggio, Frick avrebbe dovuto battere l’ora già da 10 minuti, ma continuò a segnare come se nulla fosse le 4:50.
- Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac. -
Il sig. Hilmer aveva un incontro d’affari con rappresentanti della Banca Elvetius per le 5:10, ma il suo orologio da taschino, lo costrinse ad un imperdonabile ritardo di ben 10 minuti. Gli affari erano andati a rotoli. Il sig. Hilmer decise che quella era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
- Quest’orologio è costantemente indietro, è totalmente inaffidabile! - Le lamentele del sig. Hilmer presso il Dipartimento Orologi Svizzeri furono durissime.
- Non sono certo un pignolo, ma da quando mi avete affidato questo Frick, è sempre fuori tempo. Non mi è mai capitato di vedere, né di sentir parlare, di orologi svizzeri con un simile comportamento asociale e irriverente. Esigo d’essere rimborsato con un orologio degno di questo nome e che prendiate seri provvedimenti nei confronti di questo esemplare, o il suo modello rappresenterà la peste per la nostra società.
Non era certo l’unica lamentela che i funzionari del Dipartimento ricevevano sul conto di Frick, ma decisero che quella sarebbe stata irrimediabilmente l’ultima. Il sig. Hilmer aveva ragione, quell’orologio ritardatario e asociale non era più il capriccio di una gioventù insofferente, al contrario, quell’errore meccanico era un pericolo per l’intera società svizzera. I provvedimenti che presero nei suoi confronti furono drastici: fu messo sotto un durissimo stato d’accusa da parte dei rappresentanti del Dipartimento, lo umiliarono nel profondo fino a togliergli la qualifica di orologio, lo ridussero ad una macchina irregolare, marchiato a vita come rifiuto. Per ripagare i ritardi che aveva portato durante la sua vita, fu rinchiuso in una cella d’isolamento extratemporale, per la durata di tempo terrestre equivalente al totale dei suoi ritardi: 2 anni, 5 mesi, 3 giorni, 12 ore e 42 secondi.
Terminata la sua pena l’ex orologio da taschino Frick fu deportato ai confini della città, nell’area destinata agli emarginati. Misconosciuto dalla società, costretto a vivere di stenti in compagnia di vecchie clessidre, antichi meridiani ed inutili ingranaggi creati in laboratorio, per dar vita a meccanismi più fortunati. Gli anni di isolamento ed il suo nuovo stato di inutilità sociale, lo portarono ad uno stato di disperazione, ormai le sue inutili lancette non si muovevano più, non segnava nessun’ora e per questo, neanche nessun ritardo. Era una macchina morta. Decise cosi di farla finita.
Tante volte Frick fantasticando con la mente l’aveva pensato:
- Se dovessi un giorno suicidarmi, vorrei farlo sulle rotaie di una ferrovia, calpestato dalle lame taglienti delle ruote, le mie lancette ed i miei ingranaggi salteranno via in un’esplosione di numeri.
Mai avrebbe immaginato che un giorno sarebbe successo davvero. Seduto su quelle fredde rotaie Frick pensava solo a che suono avrebbe avuto la sua morte e come sarebbe stato il sibilo del treno, poco prima di emanare il suo ultimo ticchettio. Mentre ormai, certo della sua fine, aspettava impaziente l’ultimo attimo, il vento appiccicò sul suo volto un foglio.
Era la pubblicità di una pizzeria al di là del confine, che il destino provvidenziale aveva fatto volare fin sotto alle sue lancette. Il volantino raffigurava la sagoma dell’Italia, con al centro una pizza fumante. Sotto una frase a cui Frick doveva la vita: «Non avere fretta. Non sei mai in ritardo per una Pizza italiana». Rimase immobile ad osservare la pubblicità, fu lo sbuffare del treno in lontananza che lo risveglio dal suo stupore. Saltò giù dai binari sventolando il volantino e gridando a squarciagola - Ecco la libertà, ecco la mia nuova vita. Italiaaa!!!
Non perse tempo e con la stessa determinazione con cui aveva deciso per la soluzione estrema, ora raggiante desiderava impazientemente di giungere in quella terra favolosa, dove avrebbe potuto essere finalmente un orologio libero e accettato da tutti.
Appena superata la frontiera Frick baciò la sua nuova terra. Ad attenderlo i funzionari di dogana chiesero le sue generalità ed effettuarono i controlli di rito. Frick spiegò loro che era giunto in Italia come esule politico e descrisse la sua triste sorte di orologio svizzero ritardatario. I funzionari furono subito colpiti da quella storia cosi straziante ed ingiusta e rassicurarono il povero Frick:
- Non si preoccupi, qui in Italia avrà tutta la protezione che merita.
All’interno dell’ufficio doganale, il povero orologio da taschino, attendeva seduto in sala d’aspetto sorseggiando un tè caldo. Guardandosi intorno provò subito una strana sensazione di piacevole straniamento. C’era qualcosa nell’aria che mai aveva visto prima. Il caos. Una confusione generale, ma favolosamente democratica. Nonostante quello fosse un ufficio di frontiera e poco frequentato, non poteva far a meno di notare come la gente si perdeva in un andirivieni confuso e disordinato. Carte e squilli di telefono si rincorrevano senza tregua.
Terminata la lunga trafila burocratica Frick, pronto per la nuova vita, decise di darsi un tono più professionale. Per prima cosa acquistò da un mercato delle pulci un vecchio frak ed un bastone da passeggio, barattandoli con l’ingranaggio di un vecchio pendolo. Cosi sistemato si ripromise di trovare finalmente un impiego che potesse renderlo fiero di sé. Aveva sentito dire dal pizzicagnolo che in paese c’era un ciabattino a cui probabilmente sarebbe potuto interessargli, si fece dare immediatamente l’indirizzo e si recò subito da lui. Si chiamava Giacomo, aveva una piccola bottega proprio in una traversa della piazza principale.
La porta era aperta, Frick entrò guardandosi intorno circospetto - C’è nessuno? - da una tenda sul fondo della stanza uscì un omone grosso e paffuto - Prego?
L’orologio da taschino si sistemò le lancette e si presentò:
- Salve mi chiamo Frick, mi ha mandato da lei il pizzicagnolo di Piazza delle Rose, sono un giovane orologio svizzero da taschino e vorrei sapere se per caso lei fosse interessato ai miei servigi – il ciabattino lo guardò con occhi minacciosi - No, no, per carità. Se c’è una cosa che detesto sono gli orologi, sanno solo incasinare la vita della gente e fargli perdere la tranquillità, li rende nevrotici, sempre a rincorrere il tempo.
L’orologio si sentì immediatamente messo sotto accusa, ma subito dopo pensò che forse quella era proprio la persona adatta per lui.
- Non giudichi dall’apparenza signore, sì è vero io sono un orologio svizzero, ma non sono come tutti gli altri, io sono sempre e costantemente in ritardo, probabilmente potrò far al caso suo, senza renderla schiava del tempo.
Cosi facendo Frick raccontò al ciabattino la sua triste storia, tanto da convincere Giacomo a dargli un’opportunità,
- Bene se è vero quel che dici, facciamo una prova, dimmi fra quanto suoneranno le campane delle chiesa? - Frick si guardò sul quadrante, ci pensò un po’ su e disse: - Fra 30 minuti signore.
Gli anni di prigionia e la lunga inattività amplificarono ancor di più il ritardo dell’orologio, ed appena 10 minuti dopo si sentirono suonare i rintocchi delle campane. Giacomo restò sbalordito:
- Fantastico, un orologio svizzero che scandisce un tempo costantemente sbagliato. È proprio quello che mi serviva, tu sei un dono. D’ora in poi la tua casa sarà il mio taschino - cosi facendo lo afferrò, alitò sul suo sportellino, lo lucidò con la manica della giacca e lo infilò nella tasca.
Gli occhi di Frick si illuminarono. Il suo cuore iniziò a battere forte e gioioso, le lancette ritornarono a segnare delle ore tutte sue, era di nuovo un orologio. Ora sapeva di poter essere finalmente felice.
Che paese fantastico questa libera e tollerante Italia.

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venerdì 1 aprile 2011

Apostolica



«Chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli.»
Luca 6,13

Nei fiumi si nuota come nella vita. Non è la stessa cosa che restare a mollo nel mare. Non si tratta di una vacanza, o di una pausa. Si segue la corrente o vi ci si oppone. Si raccolgono ciottoli e si urtano rocce. Si affrontano le secche e si affoga nelle piene. Non è il mare. È qualcosa di più umano. Di più terreno. Lì, oltre la terraferma invece è un altro universo. Quando ero piccolo una volta litigai con mia madre. Per la rabbia, scappai e mi tuffai in acqua. Provai a gridare. Non ci riuscì. Tossii acqua salata. Fu come se il mare avesse gridato in me. Non sono mai stato un tipo da darsi per vinto facilmente. Ci ho riprovato più volte. Niente nel mare non si può gridare. Eppure quel mare mi ha sempre riscaldato. Mi sento coperto, caldo di placenta. Liquido seminale della Terra. Adoro il sangue. E il mare profuma di sangue. Questo è tutto. Uccidere è peccato – diceva Don Gaetano, ma se uccidi per la patria no. A me della patria non me ne frega niente. Credo solo in Dio e nel sangue. Amo il sangue. E questo è quanto. Non mi interessa del dolore di una morte, non provo pietà per le mie vittime, non ho empatia. Per l’esercito sono il soldato perfetto. Non ho paura della morte. Godo solo nell’assaporare l’odore di sangue nel campo di battaglia. Le guerre moderne hanno abolito ogni umanità se non quella delle vittime e della morte. Non c’è scontro nelle nostre guerre, non c’è nemico da abbattere. È tutta una questione di bombe e di civili, di aerei e contraerei, di radar e di pioggia di piombo. Quelli come me vengono dopo. Chiamate forze di pace. Non me ne fotte un cazzo della pace. Io sono qui per il sangue. E per fortuna, nonostante la tecnologia di guerra, posso ancora sparare, posso ancora vedere morti e posso ancora assaggiare il sangue. I momenti migliori della mia vita gli ho assaporati dopo le tempeste di fuoco. Dopo le battaglie campali, quelle dove si radono a zero le città. Quando la polvere torna a depositarsi sui corpi orizzontali. Ed io senza nessun orgoglio di vincitore, senza nessuna adrenalina, senza il minimo orgasmo di potere, mi aggiro per quel campo silenzioso. Con la stessa pace, che provavo i pomeriggi d’estate in campagna, dopo la pioggia. C’è chi placa i propri tormenti sotto un cielo stellato, o a contatto con la salsedine. Io ho solo il sangue. Fertile, rosso, mischiato alla terra. Cammino nel campo, come una bambina alla ricerca di margherite. Mi stendo, spesso, affianco al terriccio intriso. Lo stringo in un pugno, ne respiro l’odore acre. E mi abbandono al mondo. Vigliacca di un’epoca protetta, coperta. Sensibile ad ogni sapore. Ad ogni sussulto di vita. Rifugge la merda, pulisce lo sperma, deodora le fiche, sviene del sangue. Che uomo è questo mio Dio? Un’animale senz’anima. Plastico. O mio Signore avrei voluto, con la tua grazia, d’esistere ai tempi dell’uomo. In quelli dei cavalieri erranti, no, no mio Dio, non per gloria d'avventure, ma per l’odore del mondo. Per i campi di battaglia ornati di spade, conficcate nelle costole, zampilli di mondo. Di carne, di vita. Di te, nostro Padre. Qui ci restano gli avanzi. Qui, degli eroi d’un tempo, voraci e sanguinari, rimane un posto in manicomio. E gli imperi governati, da saltimbanco e suore nere. Il mare. Il mare. Il mare. Onde e onde. Come in guerra. Senza pensieri e siringhe, senza preservativi e protezioni. Nudi di fronte al mondo, nudi di fronte a Dio. Alla carne che corre, alla carne che punta, alla carne che muore. Giù c’è una città ancora viva. Come quel fiume. Di gente attenta. A seguire la corrente, od a nuotarvici contro. Io non sopporto i fiumi. Quell’andirivieni frenetico e inutile, non fa per me, mio Dio. Non sono mai riuscito ad imparare nessuna poesia. La poesia è trattata da puttana. La poesia dovrebbe essere il suono del mondo. Ed io, beh, io ho dentro solo un suono in momenti come questi. E il naufragar m’è dolce in questo mare.


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